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LA SOLIDARIETA': FORME ED ORGANIZZAZIONE A ROMA (secoli IV-V)
by Angelo Di Berardino

I) Cittadini e poveri nella Roma del IV secolo.

Ogni discorso e ricerca sulla carità e la solidarietà cristiane a Roma nel IV e V secolo rimandano alla situazione sociale, politica e religiosa della città. A. de Tocqueville, nel secolo scorso, dopo un viaggio nella ricca Inghilterra e nelle nazioni povere di Spagna e Portogallo, constatava che presso i popoli più civilizzati la mancanza di una moltitudine di cose causa la miseria, mentre nello stato selvaggio la povertà non consiste che nel non trovare di che mangiare. Cioè nei paesi più civili "i bisogni aumentano e si diversificano all'infinito. L'occasione di trovarsi esposti a qualcuno di questi diviene ogni giorno più frequente" ( ). Questi criteri interpretativi si possono applicare, a mio parere, anche per il Tardoantico, al rapporto tra la grande città e le cittadine dell'Impero romano, ed ancor più in relazione con le campagne. Qui qualcosa da mangiare si trovava o si poteva rimediare, non fosse altro che verdure, nella "megalopoli" di Roma invece diventava molto problematico, per tante persone, soddisfare bisogni elementari di sussistenza. Inoltre la percentuale del numero dei poveri in senso moderno aumentava in relazione al numero degli abitanti.

Il concetto di povero e di povertà è relativo rispetto alle diverse società; chi viene considerato povero in un certo tipo di società, in altra può avere una denominazione diversa e godere di differente stato sociale. Così il termine latino pauper e simili hanno un significato diverso dal nostro ed uno spettro più ampio di significati, anche se esso principalmente indicava chi non apparteneva agli ordines dominanti ( ) e non un vero bisognoso; i veri poveri invece erano gli egentes che risiedevano anche nella zona del Vaticano o affollavano i ponti e le strade e le piazze di Roma ( ). Infatti l'Ambrosiaster, probabilmente scrittore romano del IV secolo, dice che i pauperes... qui publice egeni sunt (4 ).

Roma, una città enorme per i gusti antichi, ( ), aveva nel IV secolo una massa sterminata di gente, che veniva assistita dall'Impero; nel 367 c'erano 317.000 persone che ricevevano la distribuzione della carne porcina ( ); dopo il sacco di Alarico, nel 419, il numero scende a 120.000 (cfr. CTh 14,4,10) e risale a 141.120 nel 452 ( ). Gli aiuti pubblici non erano diretti ai poveri, in quanto poveri, ma ai cittadini residenti in città, cives domo Roma, cioè originari della città(Ruggini o.c. 161; Le Carré passim 1030; 1032), poiché le distribuzioni pubbliche non avevano funzione caritativa, ma erano un privilegio civico e politico (Ruggini, Spazi p. 161; Le Carré 1034), e come dice Simmaco: "prerogativa antica di sicurezza del popolo romano" (Relat. 9,2 dell'estate del 384). Anche le due leggi del Codice Teodosiano (CTh 11,27,1 e 2 di Costantino del 315 per l'Italia e del 322 per i provinciales), che parlano di genitori poveri con figli, non hanno lo scopo di aiutare genitori poveri, ma per evitare l'infanticidio e la esposizione dei bambini, e quindi avevano carattere demografico. Una altra forma dell'evergetismo pagano, sorta nel primo secolo, era costituita dalle fondazioni alimentari in favore di ragazzi mediante l'interesse da prestito fatto a proprietari di terre, il cui ricavato veniva versato nella cassa alimentare amministrata dalle città o da altro personale (8 ).

Le frumentationes e le varie distribuzioni, senza possibilità di cumulo, (Le Carré 1031) erano riservate ai cittadini maschi maggiorenni, aventi i diritti civili, senza preoccupazioni umanitarie o sociali. Gli infames, cioè le persone colpite da infamia, erano esclusi; ed essi nel quarto secolo erano molti e non godevano pienamente dei diritti civili. Il controllo degli aventi diritto avveniva mediante una tessera riservata ad un numero chiuso di persone, per cui i richiedenti venivano tirati a sorte per essere inclusi nella lista ( ). A Roma il prefetto dell'Urbe era incaricato delle assegnazioni (Cod. Theod. 14,17,14) ed era il più esposto alle ire popolari in caso di scarsità di cibo. Anzi, nel quarto secolo, quando si prevedevano difficoltà di approvvigionamento alimentare, il popolo richiedeva l'espulsione dalla città di quelle persone non cives domo Roma ( ), anche se erano personaggi molto importanti, per paura che il cibo non fosse sufficiente. Tuttavia in simili circostanze i personaggi dello spettacolo, anche se secondo il diritto erano infames, non venivano espulsi per esigenze di ordine pubblico (Cfr. Ammiano 14,6,14 e 18-19) e per conservare il divertimento (laetitia) pubblico. Ruggini spazi p. 174 n.56) Ambrogio narra il caso di un prefetto della città, in occasione di una di queste carestie (forse quella del 376 quando fu prefetto il cristiano Aradius Rufinus), il quale convinse i cittadini romani più importanti a non compiere un simile gesto di espulsione ma a contribuire all'acquisto di cibo per loro ( ). Inoltre le distribuzioni annonarie non esistevano dappertutto, ma solo in alcune città e non avvenivano allo stesso modo ( ). Nelle grandi città, specialmente Roma, che in realtà era l'unica grande città, moltissime persone, che altrove vivevano della terra e sulla terra, si dedicavano a soddisfare bisogni non essenziali (i numerosi spettacoli); e molte persone, senza lavorare in modo produttivo, vivevano degli aiuti e contributi imperiali. Esisteva pertanto una enorme massa non produttiva: fenomeno che non avveniva in piccole città.

Nella città di Roma, nel quarto secolo, tutte le spese per ogni forma di distribuzione alimentare come pure gli oneri per gli spettacoli e le varie cerimonie dalla casse imperiali furono trasferite alle famiglie aristocratiche romane, allorché un loro membro rivestiva una magistratura ( ). Erano le tradizionali liberalitates, pur teoricamente libere, in pratica rese obbligatorie. L'organizzazione di vari tipi di spettacoli, gratuiti per il popolo, ma di enorme spesa anche per il ricco cittadino, era criticata dai predicatori cristiani, anche se talvolta erano proprio dei cristiani, con cariche pubbliche, ad offrirli gratuitamente al popolo. Tra le tante voci, citiamo quella di Ambrogio: "E' prodigalità consumare le proprie sostanze per conquistare il favore del popolo, come fanno coloro che dilapidano i loro beni nei giochi del circo o anche negli spettacoli teatrali e gladiatori o anche in cacce alle fiere, per superare la fama di chi li ha preceduti" ( ). Lattanzio stabilisce un contrasto tra la liberalitas pagana e le forme caritative cristiane (Div. Inst. 6,11). Quelle stesse persone, osserva il Crisostomo, che non danno ai poveri, spendono invece enormi somme di denaro per le liberalitates pubbliche, da dove si ricavava il prestigio politico e sociale (15 ).

Un'altra forma di aiuto alle persone più deboli era il sistema del patronus e dei clientes ancora vigente nel quarto secolo ( ). Essendo le distribuzioni annonarie un privilegio delle classi tradizionali di persone, le autorità civili iniziano una "politica di espulsione dei mendicanti, dei senza lavoro, degli stranieri fuori dalle città orientali ed occidentali. La città respinge verso le campagne la povertà che essa stessa aveva generato" ( ). Ma la povertà conosciuta da noi è precisamente quella urbana, mentre ignoriamo quella delle campagne nella Tardoantichità. Pietri, Pauvres p.842s Tuttavia la città, allora come oggi, esercitava un richiamo ed un'attrazione: l'indigente sperava che la città, perché era molta affollata, offriva più speranza ed egli poteva ricevere un qualche aiuto, ma soprattutto riceveva la consolazione della condivisione dell'indigenza e della malattia.

Nel 382 Graziano invia una legge a Severo, prefetto di Roma, secondo la quale tutte le persone valide, sia di stato servile che libero, se in condizione fisica buona, dovevano essere tolte dalla situazione di mendicità dalla città e assoggettate o ad un padrone oppure al colonato. Restavano però liberi per mendicare tutti quegli individui inabili o malati, ai quali nessuna autorità pubblica pensava ( ). Per l'attuazione della legge era necessaria però la richiesta di un delatore. La legge riconosce esplicitamente una connessione tra malattia e povertà; il lavoratore salariato e a giornata, se diventava inabile, non potendo più lavorare, non aveva altre risorse e non gli restava che la mendicità; e il povero era più facilmente vittima della malattia. cfr. Patalagean*, Pauvreté p. 101 e in Vera, La società 57 La misura coercitiva non è nuova, in quanto Lattanzio riferisce che Galerio aveva adottato una maniera forte di espulsione dei mendicanti dalle città facendoli perire ( ); inoltre la misura non doveva colpire molto la sensibilità comune perché delle città greche punivano con la morte la mendicità ( ). Il concetto di invalidità fisica era diverso rispetto ad oggi; l'invalido era chi non poteva realmente compiere alcun lavoro, anche minimo. La legge di Graziano è molto discussa; essa fu emanata probabilmente, come era prassi, su richiesta del prefetto Severo, che era cristiano. Era una misura di ordine pubblico per controllare l'afflusso di mendicanti a Roma? Oppure poteva rispondere ad esigenze di non creare concorrenza con i veri bisognosi e privare quest'ultimi delle elemosine abituali fatte dai cristiani? In questo caso potrebbe rispondere alle avvertenze di cristiani, che insegnavano un discernimento nel fare l'elemosina ( ). Certamente la presenza di molti mendicanti a Roma non era una minaccia, in caso di scarsità di rifornimenti alimentari, per i cittadini propriamente romani, in quanto i mendicanti non avevano diritto alle distribuzioni annonarie, se non erano cives domo Roma, le quali resteranno sempre di carattere civico e non assumeranno mai carattere caritativo, come è l'assistenza cristiana rivolta possibilmente a tutti.

Pertanto il povero, nel senso di indigente, è respinto dalla società romana oppure è soltanto tollerato, come si esprime un graffito pompeiano: "Odio i poveri. Se qualcuno vuole qualcosa per niente, è pazzo. Deve pagarla" (CIL 4,9839b); e Plauto scrive: "fa male chi dà da mangiare ad un povero: infatti quello che gli dà va perduto e gli prolunga la vita per la sua infelicità" (Trinummus II,2,58ss). Tuttavia non bisogna generalizzare; v'erano persone compassionevoli, come un certo C. Ateilius Euhodus che fa scrivere sul suo epitaffio a Roma di essere un amans pauperis ( ). La morale stoica e l'insegnamento cristiano diffondono l'idea del soccorso ai poveri, ma non animano le istituzioni civiche tradizionali, che restano nell'impero cristiano, come le varie liberalitates, con la loro caratteristica tradizionale di privilegio civico, mentre quotidie pauper occiditur (Ambrogio, De Nabuthae 1). La nuova sensibilità morale resta estranea alle istituzioni pubbliche. Era diffusa la tendenza, tra la classi più alte, a identificare la nobiltà dei natali con la nobiltà d'animo, con la conseguenza di considerare il povero come potenziale criminale o almeno di una moralità più bassa. Tradizionalmente la povertà è una vergogna, e il povero è miserevole, anche moralmente; essa assume una coloritura etica. Il cristiano Minucio Felice ribatte che: "la povertà non è una vergogna, ma una gloria" (Octavius 36). Con il cristianesimo la povertà si associa frequentemente con la santità: il santo è anche povero. cfr. De Boer, p. 168 "L'impermeabilità dell'istituzione annonaria alle nuove preoccupazioni morali non meraviglierà pertanto più di tanto che la sopravvivenza dei giochi di anfiteatro organizzati da magistrati cristiani durante tutto il quinto secolo" (Le Carré p. 1100; cfr. Ville, Les jeux, MEFRA 1960,273-335).

L'ampio e diffuso evergetismo imperiale crea oziosità e lusso, cose contrarie all'etica del lavoro. Roma è una città di gaudenti e fannulloni, che, per ragione di decoro, gli imperatori e i papi hanno alimentato. Pag. 614ss (Lane Fox? P. Vayne, Il pane?): gli antichi non avevano l'etica del lavoro, del mestiere, del guadagnarsi da vivere. Evergetismo e carità: P. Veyne, Il pane...; L. Cracco Ruggini, La città imperiale 254. Un acuto studioso del problema, A. Giardina, osserva in proposito che "L'evergeta dona per marcare la sua distinzione sociale, per patriottismo, per senso civico; il suo gesto si rivolge alla realtà di questo mondo. Il donatore cristiano mette in atto la sua carità per acquisire meriti presso il Signore; la sua generosità guarda a un mondo diverso, che non è quello reale. L'evergeta si indirizza al popolo come insieme dei cittadini, il donatore cristiano ai 'poveri', intesi come categoria sociale e morale, non civica" ( ). Somiglianze con l'evergetismo pagano: Ruggini, Spazi 167ss: Ma anche questo tradizionale modo della ricerca della gloria e del prestigio sociale contamina molti vescovi cristiani; e di fatti essi vengono ricordati più per le costruzioni che per le opere assistenziali. Si rendeva ben conto l'anonimo autore dell'Opus imperfectum in Math., il quale critica aspramente il clero che si dedica troppo ad attività edificatorie nel costruire martyria, adornare le chiese, dicendo di farlo per la gloria di Dio; l'attività edificatoria, per lui, è un bene se i vescovi si preoccupano anche dei poveri, mentre è riprovevole invece se li trascurano. Tuttavia, osserva che in realtà essi cercano la gloria umana: quis tam insensatus est, ut non intelligat quia non ad gloriam Dei faciunt aedificia illa, sed propter aestimationem humanam? (PG 56,885). Il suo consiglio è molto evangelico e presuppone la nuova antropologia cristiana: Vis domum Dei aedificare? Da fidelibus pauperibus unde vivant, et aedificasti rationabilem domum Dei. In aedificiis enim homines habitant, Deus autem in hominibus sanctis. Quales ergo illi sunt, qui homines exspoliant, et aedificia martyrum faciunt? (PG 56,886). Agostino, come dice Possidio, "non ebbe mai la smania di nuove costruzioni... non proibiva però a chi lo volesse di costruire, purché con moderazione" (Vita Aug. 24,13). Ad Edessa nella prima metà del V secolo si realizza concretamente la preoccupazione per gli stranieri, i poveri e bisognosi di ogni genere. La Vita di Alessio (Leggenda dell'uomo di Dio) ( ), una apologia del vescovo Rabbula, e la Vita di Rabbula delineano quale deve essere la figura del vescovo, che invece di dedicarsi a costruzioni deve impegnarsi a soccorrere gli stranieri e i bisognosi ( ). Rabbula precisamente risponde a questi requisiti e la sua carità si estende anche alle altre città. Per esempio la Vita di Rabbula non parla della molteplice attività del vescovo, ma loda soltanto la sua vita ascetica e la sua attività caritativa verso orfani, vedove, poveri ed ammalati. A tale scopo costruisce anche un ospedale. Anche uno dei canoni ecclesiastici di Rabbula prescrive che i chierici non dovevano possedere più del necessario, ma lo dovevano distribuire ai poveri ( 26).

II Assistenza e solidarietà cristiane.

Quanti erano i poveri a Roma nel quarto secolo? E quanti poveri assisteva la chiesa romana? Non possiamo rispondere a nessuna di queste domande, perché ogni studio quantitativo ci sfugge, in quanto le basi di ricerca sono troppo incerte. Giovanni Crisostomo, che scrive per il periodo che qui ci interessa, parla della situazione di Antiochia. La sua descrizione è famosa, perché offre dei dati e delle considerazioni. "Ritengo che le persone ricche siano la decima parte degli abitanti di questa città, e che i poveri siano un'altra decima parte, mentre il resto costituisce la classe media... Se il numero dei ricchissimi è piccolo, quello delle persone agiate, che vengono dopo di loro, è grande; e i poveri, a loro volta, sono un numero limitato rispetto a costoro. Eppure, benché le persone in grado di nutrire i poveri siano tante, molti vanno a dormire affamati... Se i ricchi e gli agiati si dividessero il compito di aiutare coloro che necessitano di cibo e vestiario... Considerate quante vedove e quante vergini la Chiesa aiuta e sostenta ogni giorno, pur avendo un reddito pari a quello di uno dei meno agiati in questa città, non dei più ricchi. La sua lista raggiunge la cifra di tremila tra vergini e vedove. La Chiesa aiuta inoltre quanti si trovano in carcere, gli ammalati negli ospedali, i convalescenti, i pellegrini, i mutilati... e tutti quanti ogni giorno vengono qui a chiedere aiuto" ( ). Il Crisostomo non precisa il numero dei bisognosi, quelli che sono in qualche modo emarginati e vengono soccorsi dalla chiesa; tuttavia la loro povertà è proprio estrema, perché necessitano del minimo necessario per sopravvivere, cioè solo qualcosa da mangiare e un qualche indumento. Ritorna quel concetto di povertà, differente dal nostro, di cui già si discorreva. Non so se la situazione di Antiochia ci possa essere utile per capire quella romana, tuttavia può essere un termine di paragone.

Una domanda a cui invece è più facile dare una risposta riguarda lo spettro dell'assistenza cristiana. Quali erano le forme della solidarietà cristiana nella società romana del quarto e quinto secolo fin qui descritta? Esse erano tante, che si esplicavano in vario modo; alcune tipiche e applicabili solo in quella struttura di società e non avvertite più in seguito con la stessa forza e intensità. Che si tratta di solidarietà alle persone in qualsiasi necessità, si può considerare i destinatari della carità della chiesa milanese al tempo di Ambrogio. Si veniva incontro a tutte le varie necessità ( ); anche aiutare economicamente le ragazze bisognose a sposarsi ( ), o all'educazione di orfani e abbandonati ( ); a chi si trovava in ristrettezze economiche ( ); ai forestieri ( ). Mancando un sistema bancario, la chiesa si impegnava a custodire i depositi delle vedove e degli orfani, i quali venivano affidati ad essa contro i soprusi dei potenti ( ) e dello stesso imperatore ( ). Una categoria particolare era costituita dai lebbrosi, che venivano allontanati sia dalle famiglie che dalle città: "scacciati da ogni parte formano una classe a se stante" ( ); allontanati dalle fonti di acqua, si raggruppavano e soggiornavano lungo le grandi strade. Qualcuno si limita ad offrire delle elemosine, tuttavia ci sono dei cristiani - monaci? - che dedicano la loro vita alla loro assistenza ( ). Le forme di solidarietà cristiana vengono messe in rilievo anche dai pagani, che citeremo più avanti, come Luciano di Samosata, Giuliano imperatore ed altri come Nettario. Anzi Giuliano, che conosce bene queste forme caritative intende stabilirle anche nel mondo pagano: questo gesto è indice che esse fossero tipiche dei cristiani (37 ).

In particolare enumero alcune delle opere di solidarietà: 1) L'aiuto ai fratelli nella fede incarcerati o condannati ai vari lavori forzati per i primi secoli, poi nel nostro periodo ai carcerati in generale. 2) Il riscatto delle prostitute; 3) Riscatto dei prigionieri; 4) Soccorso alle vittime dell'usura, e specialmente a chi era oppresso da debiti. 5) Assicurare una sepoltura a tutti; 6) Cura delle vedove e degli orfani; l'ospitalità per i forestieri. Erma considera beati quei vescovi ospitali ( ). Tra le finalità della raccolta domenicale Giustino, che scrive in Roma, dice che c'era anche quella di accogliere: "gli ospiti che venivano da altri paesi" (1Apol 67). 7) Cura dei malati.

Per ragione di spazio e di tempo, non è possibile soffermarsi sulle singole "opere di misericordia", per cui conviene prestare attenzione in speciale modo a qualcuna di esse, tra le meglio visibili per noi. Tuttavia era tradizione della chiesa romana non limitare la sua azione caritativa nell'ambito del suo territorio e all'assistenza di cristiani romani condannati altrove. Roma realizzava quanto Ignazio di Antiochia, agli inizi del secondo secolo, diceva di essa, di "presiedere alla carità". Dionigi di Corinto scrive a papa Sotero (166-175), sulla tradizionale solidarietà romana: "fin dagli inizi voi avete la bella consuetudine di beneficare tutti i fratelli, di mandare soccorsi a numerose chiese costituite nelle singole città. In tal modo sollevate i bisognosi, mediante appunto codesti aiuti, che già dai primissimi tempi continuate a inviare e somministrate il necessario ai fratelli che stentano nelle miniere. Siete romani e custodite gelosamente le tradizioni dei vostri avi, i romani: e Sotero, il carissimo vostro vescovo, non solamente le mantenne, ma persino le sviluppò soccorrendo con larghezza i santi nei loro bisogni" (presso Eusebio, Hist. Ecc. 4,23,10*14*). Queste affermazioni sulla grande sollecitudine romana sono confermate da altre testimonianze per altre province dell'Impero romano: per esempio, Dionigi di Alessandria loda papa Stefano (254-257) per inviare "regolarmente dei soccorsi" alle chiese della Siria e dell'Arabia (Eusebio, Hist. Ecc. 7,5,2); oppure, nello stesso periodo, in Cappadocia (cfr. Basilio, Ep. 70).

1) L'assistenza ai carcerati: un modo di solidarietà tipicamente cristiano e nuovo nella sensibilità comune. ( ). Il giurista Ulpiano, a proposito del carcere, scrive, che esso "serve per detenere gli uomini non per punirli" (Digesto 48,19,8,9). In altre parole la carcerazione non era concepita come esecuzione di una condanna emessa da un giudice: non si condannava mai al carcere, perché il suo scopo era la custodia "cautelare" in attesa del giudizio, emesso in tribunale dal governatore o dall'imperatore stesso. Il carcere poteva avere alcune stanze, collocate una dopo l'altra senza finestre e senza luce; oppure scavate in profondità a diversi livelli, con scarsità d'aria e di igiene, con una piccola comunicazione per risalire, da dove era impossibile fuggire. Il buio delle carceri era proverbiale e anche s. Agostino lo usa come paragone (Sermone 211,2). La legge normalmente non regolava la detenzione, che restava a completo arbitrio dell'autorità; poteva essere inflitta in qualsiasi momento ed essere tolta in ogni momento o continuata all'infinito, anche se nella pratica è qualcosa di transitorio. Agostino accenna a carcerieri che avevano i detenuti nella propria casa: "pensate ai custodi dei carcerati. Anche se li tengono chiusi nelle loro case, certo quelli che si trovano sotto sorveglianza sono in carcere... abitano gli e gli altri in una stessa stanza, per il carceriere è la casa, per il prigioniero il carcere" (Com. in Psalm. 141,17).

La detenzione poteva comportare, sempre a discrezione dell'autorità, l'uso delle catene per maggiore sicurezza. Il trattamento dell'imprigionato dipendeva dalle possibilità economiche dei detenuti e dalla loro importanza sociale. Parenti e amici pagavano i custodi o i soldati per visitarli e aiutarli. Nei testi dei martiri vediamo che i cristiani davano soldi ai custodi, a volte somme consistenti, per poter portare conforto a chi era imprigionato per la fede. Anzi era un dovere di tutta la comunità soccorrere, non solo materialmente, ma anche spiritualmente i fratelli, che per la loro fede, erano in carcere. Dal contesto sociale e istituzionale nasce l'esortazione cristiana a visitare i carcerati, in quanto spesso, quelli che non erano ricchi, erano abbandonati a se stessi e costretti a morire di stenti. Visitare i carcerati diventa un dovere cristiano, specialmente di chi è in autorità ( ). Ambrogio scrive: "ti sia presente anche chi è rinchiuso in prigione" ( ). Nel 419 Onorio concede ai vescovi il permesso di recarsi nelle carceri ope miserationis per medicare gli ammalati, nutrire i poveri, consolare gli insontes (Sirmondiana 13).

2) Un altro impegno di solidarietà cristiana riguardava le donne costrette alla prostituzione. Ambrogio annovera le prostitute tra i poveri, cioè tra quelle persone più abbandonate socialmente (De officiis 2,15,70) e pertanto più bisognose della solidarietà cristiana. Anche l'imperatore concede ai vescovi di liberare le prostitute dai lenones (CTh 15,8,2) nel 428; già nel 343 Costanzo aveva concesso che le donne divenute cristiane non potevano essere adibite alla prostituzione: ma un cristiano poteva riscattarle pagando il giusto prezzo.

3) Il riscatto dei prigionieri appartiene all'antica tradizione cristiana di aiuto e di solidarietà ( ), poiché in momenti di invasioni venivano presi i civili, che costituivano una ricchezza per i rapitori. A Roma, già nel secondo secolo Erma considera il riscatto "dei servi di Dio" un'opera di misericordia (Comand. 8,10). Cipriano invia centomila sesterzi per aiutare i cristiani della Numidia per il riscatto dei prigionieri (Ep. 62,4) e si dice disposto a dare di più per la generosità dei cristiani di Cartagine. Lattanzio considera il riscatto dei prigionieri un'azione di alta umanità (Div. Inst. 6,12,39; Epitome 65). Vediamo come questa opera caritativa viene messa in pratica, dopo il disastro di Adrianopoli, per esempio a Milano, da parte di Ambrogio, che vende per l'occasione anche i vasi sacri; non solo ma egli offre un'ampia giustificazione della sua opera caritativa ( ). Dovevano essere forti le critiche contro questa destinazione dei vasi sacri. Anche Agostino fa altrettanto in Africa ( ). La chiesa di Cappadocia ricordava ancora nel quarto secolo gli aiuti inviati dalla chiesa romana per il riscatto dei prigionieri nell'invasione gotica della metà del terzo secolo ( ). Ancora alla fine del sesto secolo Gregorio Magno fa riferimento alla necessità del riscatto dei prigionieri in occasione della invasione longobarda ( ). Interessante e significativo che le autorità imperiali demandano ai sacerdoti cristiani, come obbligo, di prestare attenzione al riscatto dei prigionieri, con una legge del 408 (CTh 6,7,2). Ed Ambrogio può rinfacciare a Simmaco che i templi pagani non hanno preoccupazioni di carità: "Ci dicano quanti prigionieri hanno riscattato i templi, quante volte hanno somministrato alimenti ai poveri, quanti esuli hanno sovvenzionato con sussidi" (Ep. 18: PL 16,977).

4) Soccorso alle vittime dell'usura, e specialmente a chi era oppresso da debiti. I Padri con forza e frequentemente condannano l'usura, che allora si intendeva qualsiasi prestito con interesse. Tra le sue attività caritative Melania liberava i detenuti per debiti [SCh 90, p. 144). Lattanzio, Div. Inst. 6,18,7ss; Pietri, Pauvres p. 841s.Ambrogio (De off. 2,16,76) ne parla esplicitamente, pur costatando che moltissimi fingono di avere debiti. In particolare erano pesanti i debiti con il fisco, che era implacabile, con l'applicazione delle leggi e le loro conseguenze: si arrivava persino alla prigione o alla presa in pegno dei figli. Si conosce il caso di una donna che fugge nel deserto, poiché suo marito è in prigione per debiti e i tre figli erano stati venduti all'asta (Hist. monach. in Egypto 14,5-7) (47 ).

5) Procurare un sepoltura ai defunti. L'uomo antico si preoccupava molto di avere una sepoltura, il più decente possibile, senza alcun paragone con l'uomo di oggi. Spesso da vivo ci si preoccupava di costruire la propria tomba, come ancora avviene in talune parti d'Italia; così anche i cristiani hanno considerato un dovere impellente di carità seppellire i morti poveri. Scrive Lattanzio: Ultimum illud et maximum pietatis officium est peregrinorum et pauperum sepultura ( ). Già a Gerusalemme c'era un impegno comunitario per la sepoltura degli stranieri. Aristide, nel secondo secolo, scrive che: "quando uno dei loro poveri lascia questo mondo, ed uno di loro lo vede, allora provvede alla sua sepoltura (Apol. 15,7 nel testo siriaco). Tertulliano ci parla della "cassa comune" ( ) che tra le altre opere assistenziali serviva anche per egenis humandis (Apologetico 39,6). La Tradizione Apostolica, degli inizi del III secolo, attribuita ad Ippolito, conferma questa organizzazione e queste finalità. Se essa è stata scritta a Roma ci presenta l'organizzazione romana comunitaria per la sepoltura. Ippolito, quello certamente romano, ci presenta il diacono Callisto incaricato a Roma del koimeterion ("dormitorio") (Phislophoum. 9,12,14). Anche Alessandria aveva tutta una organizzazione per questo servizio ( ). La cura della sepoltura viene affidata ai fossores, che nel quarto secolo ottengono la dispensa dalla collatio lustralis. Cfr. Pietri, Roma 659ss; 131. Anche l'imperatore Giuliano vede come caratteristica dei cristiani "la cura di seppellire i morti" (Ep. 84,429D Caltabiano). Ambrogio, insieme al riscatto dei prigionieri (De off. 2,15,70ss), considera la sepoltura un'opera così importante per cui è lecito e doveroso vendere i vasi sacri. Scrive: "Nessuno può lamentarsi perché sono stati riscattati dei prigionieri; nessuno può lanciare accuse perché sono stati allargati gli spazi per seppellire le spoglie dei fedeli; nessuno può dolersi perché i cristiani defunti riposano in una tomba. In questi tre casi è lecito spezzare, fondere, vendere i vasi della Chiesa, anche se già consacrati" (De off. 2,28,142). La cura per i defunti, a Roma così sviluppata e documentata, è una testimonianza ancora molto visibile, ed altri ne parleranno in questa sede.

6) Cura delle vedove e degli orfani. In ogni società priva di forme assistenziali, anche in quelle preindustriali moderne, gli orfani, le vedove e i poveri erano le persone più bisognose e più deboli. Non esisteva nell'impero romano, e quindi neanche a Roma, alcuna forma assistenziale per loro. Gli orfani potevano essere ridotti in schiavitù oppure sfruttati per la mendicità. Le vedove dovevano provvedere a se stesse per guadagnarsi da vivere, come scrive Girolamo: "quelle [vedove] che sono prive di qualunque aiuto da parte dei congiunti, quelle che non hanno la possibilità di lavorare con le proprie mani, quelle che la povertà rende deboli e che sono logorate dall'età... Questo ci permette di capire che le vedove di giovane età - ad eccezione di quelle che sono scusate dal loro stato di salute - sono obbligate o a lavorare personalmente o a rimanere a carico dei figli e dei parenti... L'Apostolo obbliga le vedove povere - quelle sole, beninteso, che sono ancora giovani e non esauste per qualche malattia - a lavorare con le proprie mani perché non siano di peso alla chiesa" (Epist. 123,5) ( ). L'insistenza di Girolamo è sul bisogno reale, le vedove veramente povere, e l'età giusta. L'età tuttavia era secondaria rispetto alle necessità delle vedove. Infatti se esse non avevano eredità o altri beni personali e non erano in grado di svolgere qualche lavoro utile, restavano prive dei mezzi più elementari per vivere. Ma quante potevano disporre di mezzi sufficienti?. Conosciamo meglio, anche se in maniera insufficiente, l'assistenza prestata alle vedove cristiane da parte della chiesa. Nei testi cristiani tuttavia, quando si tratta di aiuti assistenziali sistematici e non casuali, queste tre categorie di persone spesso vengono messe insieme, come scrive papa Gelasio: viduarum, pupillorum atque pauperum stipendia (Ep. 10: PL 57,59). L'uso del termine stipendium, e non elemosina o espressioni simili, rimanda all'esistenza di liste specifiche di queste persone assistite: una matricula pauperum ( ) ed una matricula viduarum ( ). I poveri vengono iscritti in uno specifico registro, per indicare quelle persone che stabilmente ricevevano sussidi, non gli avventizi o i mendicanti. L'esistenza di un simile registro, per la chiesa romana, è attestata già dalla metà del III secolo, al tempo di papa Cornelio (251-253), in una lettera che scrive a Fabio di Antiochia (Eusebio, HE 6,43,12).

Le vedove, iscritte in uno speciale registro, ricevevano degli stipendia viduitatis ( ). La chiesa, osserva l'Ambrosiaster, un autore romano, per norma non doveva prestare aiuto alle vedove che avevano figli e nipoti; tuttavia a volte c'è l'impietas di queste persone, ut anus despiciatur a suis, per cui si verifica che fidelium viduae nunc multum gravant eccelsiam, a scapito di altre persone bisognose ( ). Secondo la prassi venivano iscritte nella lista le vedove non risposate, ma, dice lo stesso autore, a volte anche quelle che si erano risposate due o tre volte e persino persone indegne ( ). In realtà l'assistenza a volte riguardava anche donne non anziane, prima dell'età richiesta dei 60 anni, ma che tuttavia erano bisognose o malate (Girolamo, Ep. 52,5; 123,5). Gli Statuta Ecclesiae antiqua affermano che le viduae adulescentulae, quae corpore debiles sunt, sono sostentate dal sumptu ecclesiae (can 36). Le condizioni normali richieste pertanto erano quattro: l'età di sessant'anni; la privazione di altre risorse; la mancanza di parenti, figli o nipoti; un solo matrimonio. Tuttavia qualcuna di queste condizioni, come si è visto, poteva facilmente mancare: la malattia, il disinteresse dei parenti, od anche il fatto di essersi risposate. Spettava ai responsabili valutare ogni singolo caso seguendo la pietà e la commiserazione.

Qualche vedova considerava un onore, pur avendone diritto, non aver ricevuto lo stipendium viduitatis, come quella Regina, il nome della donna, restata vedova, non si era risposata e non era iscritta nel registro all'età di 20 anni e morta all'età di 80; il suo epitaffio riecheggiando s. Paolo dice: et ecclesia numquam gravavit, unybara ( ); o come Dafnen, anch'essa aclesia nihil gravavit. Regina, non risposata, aveva il diritto a ricevere il sostentamento, ma ha preferito non gravare sulla comunità trovando altri modi di vivere, probabilmente aiutata dalla sua figlia, che le ha costruito la tomba. Le iscrizioni che indicano vidua sono quelle iscritte?. Al tempo di Gregorio Magno la chiesa romana assisteva 3000 donne, ma allora la città aveva molto meno abitanti (58 ).

7) La cura degli ammalati ( ). Il pagano Nettario riconosce che i cristiani si prendono cura degli ammalati: voi "vi prendete cura degli afflitti, somministrate le medicine ai corpi malati; insomma fate del tutto perché i sofferenti non sentano a lungo i loro malanni" ( ). I cristiani insegnavano che la compassione concreta era una virtù qualificante, a differenza di una certa tradizione pagana che considerava la pietà come un difetto del carattere ed andava combattuta ( ). Inoltre non esisteva una motivazione filosofica o religiosa che sostenesse la cura dell'ammalato o del sofferente, anche se parlavano di filantropia, come di una virtù ( ). Non essendoci nessun tipo di assistenza medica, chi cadeva malato, se non aveva altre risorse economiche, facilmente perdeva la sua fonte di sostentamento e la possibilità di qualche cura. Le deformazioni fisiche erano molte comuni; quando si voleva identificare qualche persona, per esempio nei contratti, si menzionava un difetto fisico, specialmente delle cicatrici. I cristiani invece presentavano Cristo come medico e come il buon samaritano, ed ogni fedele doveva imitarlo, anche in ragione di una ricompensa celeste. Per cui il malato acquistava una posizione preferenziale e la dedizione alla sua cura diventava segno di crescita spirituale. La Traditio Apostolica non solo parla dell'aiuto da dare concretamente ai malati (cap. 24), ma fa obbligo al vescovo di visitarli, perché "grande è la gioia del malato quando si vede ricordato dal sommo sacerdote" (cap. 34). Lattanzio afferma che aegros quoque quibus defuerit qui adsistat, curandos fovendosque suscipere summe humanitatis et magnae operationis est ( ). Questa pratica cristiana viene messa all'opera, durante la pestilenza della metà del III secolo, sia a Cartagine che ad Alessandria; ma possiamo pensare che altrettanto si facesse anche a Roma. Nel quarto secolo nascono le prime istituzioni private o comunitarie per accogliere e curare gli ammalati, specialmente quelli più poveri; anche a Roma, come si dirà più avanti. Lo scopo è di solidarietà umana e spirituale, come dice Paolino di Nola: "essi rafforzino le nostra fondamenta, noi aiutiamo i corpi dei fratelli indigenti con l'abitazione" (Carm. 21,392-394).


III Forme di carità cristiana
Agli inizi del quinto secolo Roma è la sede di forti dibattiti sulla ricchezza tra i cristiani e sulla loro distribuzione ai poveri. Abbiamo testimonianze di questo dibattito soprattutto nell'ambiente aristocratico. Anzi tutto negli anni 408-410 suscita enorme risonanza la decisione della giovane coppia Piniano e Melania la Giovane di vendere le loro vastissime proprietà sparse in diverse provincie e dedicarsi alla vita ascetica. Incontrarono molte difficoltà perché sovvertivano la società aristocratica. Melania, figlia unica ed ereditaria, dovette aspettare la morte del padre; e non avendo compiuto i 25 anni richiesti per l'amministrazione (Melania aveva 20 anni, il marito Piniano 24), dovette chiedere la venia aetatis al prefetto ( ). Ma ci sono altri casi simili ( ). Inoltre alla fine del quarto secolo e agli inizi del quinto si diffonde un grande fervore a spogliarsi dei propri beni e a darli ai poveri soprattutto a Roma. Nello sfondo, sempre a Roma, si staglia una polemica contro le ricchezze e i ricchi. Invero si incrociano e si intersecano diverse tendenze dottrinali e pratiche. Sembra difficile presentare le varie posizioni allo stato puro. La condanna assoluta delle ricchezze sembra riconnettersi con il movimento pelagiano. L'eco di questo dibattito si vede anche nella lettera che un certo Ilario scrive ad Agostino tra il 414 e il 415, nella quale dice che "alcuni cristiani di Siracusa asseriscono... che un ricco, il quale rimanga in possesso di tutte le sue ricchezze, non può entrare nel regno di Dio se non vende tutti i suoi beni, e non gli può giovare a nulla, se per caso avrà osservato i comandamenti, facendo uso delle stesse ricchezze" (Agostino, Ep. 156) ( ). Nel luglio del 415 questa stessa accusa, tra le altre, viene rivolta a Pelagio da due vescovi gallici Heros di Arles e Lazzaro di Aix, di fronte ad Eulogio di Cesarea, in Palestina (DTC 12,690-693). Infatti il concilio di Diospoli del dicembre del 415 condanna la proposizione riguardante la necessità assoluta della rinunzia ai beni ( ). La dottrina più articolata su questo argomento viene esposta in una opera contemporanea, il De divitiis ( ), forse composta a Roma (cfr. 19,4: PLS 1,1415). L'idea guida, fondata su Prov. 30,8, è che "la ricchezza consiste nel possedere più del necessario; la povertà, nel non avere quanto basta; la sufficienza... nel non possedere più del necessario" (5,1). Le ricchezze non sono peccato, ma provengono dal peccato e conducono al peccato, per cui è praticamente impossibile al ricco essere perfetto cristiano. Anche la famosissima propositio che le ricchezze aiutano le opera pietatis et misericordiae (12,1: PLS 1,1400) viene contestata e ridicolizzata. L'anonimo autore afferma che: "Togli di mezzo il ricco e il povero non lo troverai più. Che nessuno possegga più di quel che è necessario ed allora tutti avranno il necessario. I pochi ricchi infatti sono la causa dei molti poveri" (12,2: PLS 1,1401). Oltre l'influsso dell'insegnamento ascetico di Girolamo, Pelagio e i suoi discepoli erano ben conosciuti a Roma negli ambienti dell'aristocrazia femminile romana. Ora i libri dell'ambiente pelagiano avevano sicuramente un ampio corso, almeno nell'ambiente romano, o tra persone romane ma viventi altrove. Agostino riconosce la loro diffusione: "gli scritti di quegli individui i quali per acutezza d'ingegno ed eloquenza si fanno leggere da tante persone" (Ep. 188,13). Nelle opere pelagiane ricorre frequentemente l'esortazione alla povertà ( ), e quindi si crea quel retroterra spirituale e morale, per cui spogliarsi delle ricchezze costituisce un grande guadagno, per guadagnare le ricchezze del cielo.

Questo fervore ascetico incrementa le forme caritative cristiane, specialmente a Roma, sia a livello individuale e sia a livello comunitario con la donazione di beni alle chiesa.

A) Le forme private. Sono numerose le testimonianze, per Roma per il quarto secolo, della carità individuale più che di quella collettiva e comunitaria; ed esse riguardano soprattutto le donne delle grandi famiglie romane. Diversi autori pagani menzionano le donne cristiane dedite a sostenere sia la comunità che i bisognosi. Lo storico Ammiano Marcellino constata la generosità delle oblationes matronarum romane (27,3,14); come pure Zosimo riconosce che Laeta aveva dilapidato generosamente le sue ricchezze (Zosimo, Hist. Nova 5,39). Un autore pagano, Luciano di Samosata, già nel secondo secolo, in La morte di Peregrino, anche se solo per caricatura, metteva in risalto la grande solidarietà tra i cristiani: "Il loro primo legislatore li ha persuasi di essere fra di loro tutti fratelli" (cap. 13).

L'imperatore Giuliano rimprovera ai mariti l'eccessiva libertà, in questo campo, concessa alle loro mogli: "Ora, ognuno di voi permette alla propria moglie di portare via da casa qualsiasi cosa per darla ai Galilei, e così, nutrendo i poveri a spese vostre, esse suscitano negli indigenti - e sono, credo, la maggioranza delle persone - una grande ammirazione per l'ateismo" ( ). Gli stessi pagani riconoscono come proprio dei cristiani la loro opera caritativa. Il pagano Nettario, scrivendo ad Agostino, dice: "Quanto affermo è dimostrato pure dalla natura stessa delle vostre occupazioni, con cui assistete i poveri, vi prendete cura degli afflitti, somministrate le medicine ai corpi malati; insomma fate del tutto perché i sofferenti non sentano a lungo i loro malanni" ( ). Melania, a Roma, per crescere nell'ascesi ( ) visitava tutti gli ammalati senza eccezione per curarli; accoglieva pellegrini, rifornendoli per il viaggio; aiutava i poveri; liberava i prigionieri di ogni genere, i condannati alle miniere, i detenuti per debiti [SCh 90, p. 144: miniere e luoghi di prigionia non è nel testo latino]. Melania e Piniano in una volta avevano riunito la somma di 45.000 solidi per i poveri e i santi (Vita, 17). Paola si dimostra molto generosa: "Nessun povero se ne tornò via da lei a mani vuote... sapeva erogare con prudente saggezza" ( ). Tuttavia Paola si mostra anche prudente, lasciando una parte dei suoi beni ai figli ( ); Marcella, per non contrariare la madre Albina, lascia una parte dei beni ai parenti (Girolamo Ep. 127,4). La storia ci tramanda il nome di matrone generose, ma tralascia quelle invece che sono vittime delle critiche di Girolamo (Ep. 22,32) ( ). Ecdicia, ad insaputa del marito, viene rimproverata da Agostino, perché aveva dato i suoi beni per i poveri (Agostino, Ep. 262,5) e persino diseredato suo figlio, causando la ribellione del marito (162,8). Tuttavia a Roma anche uomini praticavano generosamente quella carità; Girolamo esalta Nebridio (Ep. 79, 2 e 5) e Pammachio (66,5).

Le iscrizioni funerarie attestano la generosità delle persone decedute: quelle pagane esaltano l'attività evergetica del defunto; quelle cristiane invece testimoniano un cambio di valori ed una sensibilità nuova lodando una vita dedicata all'aiuto dei poveri ( ); un Iunius nel 341 si dichiara amator pauperorum e la sua moglie amatrix pauperorum et operaria, cioè veramente impegnata nell'assistenza ( ). Altri esempi Pietri p. 861s. Orbene è molto difficile valutare l'efficacia e l'ampiezza della carità individuale nella Roma del quarto secolo, ed era quella che quasi non ha lasciato tracce, specialmente quella anonima. Siccome l'elemosina era vista come uno dei mezzi privilegiati per ottenere il perdono dei propri peccati, essa doveva essere molto più praticata di quanto le scarse fonti ci lasciano intravedere. Conosciamo meglio la predicazione e l'esortazione all'elemosina, ma non la risposta della comunità cristiana.

In tutte le città i poveri si affollavano vicino alle porte delle chiese per mendicare ( ). Talvolta alcuni prendevano i ragazzi, li sfiguravano per attirare maggiormente la compassione e li mettevano a mendicare. A Roma negli atri delle basiliche cristiane i poveri chiedevano l'elemosina, dove si dispiegava maggiormente la carità privata ( ). La zona della basilica di Pietro era uno di questi luoghi. Girolamo vi vede una nobilissima matrona, accompagnata da eunuchi, la quale distribuisce personalmente un nummus ad ogni povero per apparire più pia (Ep. 22,32). Anche Pammachio, un altro ricco e nobile cristiano, continuando l'antica tradizione dell'agape, aveva offerto verso il 396 nella basilica di S. Pietro un banchetto a una grande moltitudine di pauperes della città, in occasione della morte della moglie Paolina ( ), distribuendo loro anche dei soldi. Nella lettera, dove Paolino di Nola riferisce l'episodio, egli definisce i poveri "i patroni delle nostre anime" (Ep. 13,11 e 14; 34,4) ( ). Inoltre Paolino mette questo episodio in contrasto con l'ostentazione evergetica dei ricchi che impiegano il loro denaro per comprare ed alimentare belve e gladiatori. C'è un contrasto stridente tra la ricerca della gloria del pagano nell'offrire spettacoli e il cristiano che invece si aspetta una remunerazione celeste mediante il soccorso dei bisognosi, proprio quelle persone emarginate dalle elargizioni civiche. Scrive Paolino: "Beato te (Pammachio), che non sei intervenuto nel consesso di uomini siffatti e ottieni la lode non sulla cattedra degli empi, bensì nella sede dell'Apostolo e nell'assemblea della Chiesa, cioè nel teatro di Cristo, dove gli spettatori delle gradinate non sono sediziosi, ma benedicenti, e dove Dio stesso è spettatore. Tu dai spettacoli per la Chiesa, non per l'arena dell'anfiteatro, aspirando alla lode eterna, non alla gloria vana" (Paolino, Ep. 13,16). Girolamo dice di Pammachio (Ep. 66,5): le porte della casa dove prima si affollavano di turbae salutantium, nunc a miseris obsidentur.

B) Le forme collettive. Giustino martire, vissuto a Roma nel secondo secolo, ci informa della colletta domenicale per opere assistenziali. Dice che il presidente "stesso va ad aiutare gli orfani, le vedove e coloro che sono bisognosi...: è insomma il protettore di tutti coloro che sono nel bisogno" ( ). In questa opera i diaconi già svolgevano un ruolo di aiuto al vescovo. Un altro testo, contemporaneo a Giustino, critica i diaconi romani, che approfittavano del loro ufficio assistenziale: "Quelli che hanno macchie sono i diaconi che amministrarono male e derubano le vedove e gli orfani. Essi fecero un loro profitto della diaconia, che presero ad amministrare" (Erma, Pastore, sim. 9,26,2). Queste due testimonianze ci fanno intravedere gli aspetti essenziali dell'organizzazione della carità cristiana nella Roma antica: il primo responsabile è il vescovo, che si serve dei diaconi. La Traditio Apostolica scrive che: "il diacono viene ordinato non al sacerdozio, ma al servizio del vescovo... amministra e segnala al vescovo ciò che é necessario" (cap. 8; cfr. Costituzione Apostoliche 2,44; 8,41,47).

Il Liber Pontificalis dice che papa Fabiano (236-250) regiones divisit diaconibus (1,148); la notizia trova conferma nel Cronografo del 354 (MGH, Auct. ant. IX,1, p. 75); essa significa che le sette regioni furono affidate a sette diaconi, probabilmente ogni diacono aveva due regioni augustee, coadiuvati da sette suddiaconi. Anzi sono questi che distribuivano l'assistenza ( ). I diaconi dovevano raccoglie le offerte e provvedere all'assistenza locale. Ancora più preziosa è la lettera di papa Cornelio (251-253), che scrivendo a Fabio di Antiochia ( ) offre la prima statistica della comunità romana, la quale assiste "più di 1500 vedove e poveri". Il numero delle persone assistite doveva essere molto, ma molto più alto nel quarto secolo. Tale assistenza non era avventizia, ma un'organizzazione stabile con personale specifico. Prudenzio ci presenta il diacono Lorenzo intento, per la stessa epoca, a percorrere la città e dedito all'assistenza ai poveri (Perist. 2,141-184). Di altro genere la notizia riguardante Lorenzo, che "a chi gli chiedeva i tesori della Chiesa promise di mostrarli. Il giorno seguente condusse i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò i poveri dicendo "Questi sono i tesori della Chiesa"" (Ambrogio, De off. 2,28,139). Papa Leone, parlando di Lorenzo ne descrive l'ufficio: dispensatione ecclesiasticae substantiae praeminebat (Serm. 85,2), forse per indicare che i diaconi svolgevano una parte importante della funzione assistenziale della chiesa.

Il principale responsabile dell'assistenza pertanto era il vescovo, che doveva avere la cura dei bisognosi e degli ammalati. Il can. 14 dei Canoni di Atanasio si dilunga sui doveri personali del vescovo nel soccorrere i bisognosi, perché "Una città dove il vescovo ama i poveri non ha poveri, poiché la chiesa della città è ricca". Nei piccoli centri era più facile che il vescovo svolgesse personalmente, almeno parzialmente, questo impegno; nelle grandi città o in zone periferiche bisognava ricorrere ad altre persone specifiche, preferibilmente tra il clero ( ). Con l'aumento della popolazione cristiana del quarto secolo più persone del clero erano coinvolte. Anzi tutto i chierici si dedicavano all'assistenza; osserva Ambrogio che quanto più un chierico si mostra generoso, tanto più i fedeli offrono (De off. 2,16,78: PL 16,124); essi dovevano essere immuni dalla tentazione dell'ostentazione, come avveniva nell'evergetismo pagano (2,21,109-11; 2,24,123) ( ). Gli incaricati della assistenza cristiana, a Milano, erano i diaconi, ai quali si rivolge Ambrogio ( ), ma anche i presbiteri e i tesorieri ( ); tuttavia il vescovo era il principale ed ultimo responsabile, come in tutte le città più piccole ( ); Teofilo di Alessandria si lamenta che una donna, a sua insaputa e senza i requisiti, era stata iscritta nel registro delle vedove ( ). Gli Statuta ecclesiae antiqua prescrivono che i vescovi non devono operare direttamente, ma si devono servire degli arcidiaconi e degli arcipresbiteri (can. 7). Non si hanno però testimonianze sulla concreta organizzazione di essa a Roma: per esempio se la città fosse divisa per regioni assistenziali. Sembra che anche le vedove svolgessero questo ministero, in quanto vengono esortate ad opere di misericordia ( ). Tuttavia il vescovo doveva essere informato di nuovi casi ( ); a Milano vi doveva esserci, come altrove, una matricula pauperum. Ambrogio tuttavia esigeva grande oculatezza nella carità verso gli altri "E' chiaro dunque che la liberalità deve avere un limite per evitare generosità inutili. A questo proposito specialmente i sacerdoti devono usare criterio, in modo da distribuire non per esibizione, ma con senso di giustizia, perché con nessun altro si dimostra maggiore avidità nel chiedere. Si presentano uomini robusti, vagabondi di professione che vogliono carpire i sussidi dei poveri" (De off. 2,16,76); "Moltissimi fingono di avere debiti: si accerti la verità. Altri si dicono vittime di furti: ne facciano fede o la constatazione del danno patito o la conoscenza della persona perché si aiutino più volentieri. Devono essere forniti i mezzi di sussistenza agli scomunicati, qualora non abbiano la possibilità di mantenersi. Dobbiamo non solo aprire gli orecchi per ascoltare le parole di chi ci prega, ma anche gli occhi per valutare i bisogni, perché chi benefica con discernimento dà maggior peso al bisogno che alla voce del povero... Devi vedere colui che non osa presentarsi; devi andare in cerca di colui che si vergogna d'essere visto. Ti sia presente anche chi è rinchiuso in prigione; risuoni alla tua mente la voce dell'ammalato che non può far giungere la sua voce ai tuoi occhi" (De off. 2,16,77). interessante anche il seguito fino al parag. 84: PL 16,130ss).

Esistevano a Roma ospizi comunitari, come esistevano le catacombe comunitarie? In ogni caso questo genere di assistenza compare solo nell'avanzato quarto secolo anche in altre città ( ). Di ospizi a Milano non si hanno conoscenza al tempo di Ambrogio ( ). A Roma in realtà conosciamo l'esistenza solo di qualche fondazione privata. Fabiola, prima omnium, fonda a Roma una casa di ricovero per malati, in cui lei stessa prestava servizio assistenziale; anzi personalmente andava per le strade di Roma a raccogliere i derelitti ( ); lei, da molta ricca, ora viveva "in una casa in affitto". Pammachio fonda a Portus uno xenodochium, il cui mantenimento comportava molte spese, con annessa basilica ( ). Papa Simmaco (498-514) fece costruire degli habitacula pauperum nei pressi delle basiliche suburbane di S. Pietro, San Lorenzo e San Paolo (Liber Pont. 1,269), per i poveri che si affollavano in quei luoghi anche per mendicare. Il diacono Dionigi, a Roma, è medico; ha curato i poveri senza chiedere soldi, generoso anche verso i barbari che lo avevano torturato (ICUR 7,12601).


IV Forme e modi per la raccolta dei fondi.

I beni della chiesa erano considerati il patrimonio dei poveri, come si esprime Ambrogio: possessio ecclesiae sumptus est pauperum ( ). Per questo bisognava avere cura ed attenzione nella raccolta e nell'amministrazione. Il patrimonio ecclesiastico che si costituisce lentamente richiede sempre più una complessa organizzazione amministrativa.

A) La colletta domenicale, che avveniva in occasione della celebrazione eucaristica, era il più antico e comune mezzo di raccolta di cose necessarie per i bisognosi; si offrivano pane e vino, a volte latte e miele; ma anche altri generi alimentari e vestiario, denaro, oggetti preziosi; nei territori di campagna e piccoli centri si offrivano anche i primi frutti. La prima notizia dell'organizzazione della solidarietà cristiana a Roma, già dalla metà del II secolo, mediante raccolte festive organizzate per opere assistenziali, viene da Giustino: "Coloro che hanno in abbondanza e vogliono, ciascuno secondo la sua decisione, dà quello che vuole e quanto viene raccolto è consegnato al presidente; egli stesso va ad aiutare gli orfani, le vedove e coloro che sono bisognosi a causa della malattia o per qualche altro motivo; coloro che sono in carcere e gli stranieri che sono pellegrini: è insomma il protettore di tutti coloro che sono nel bisogno" ( ). Si stabilisce una stretta connessione tra la assemblea domenicale (il giorno del sole), in cui avveniva la celebrazione eucaristica, e la raccolta per i bisognosi, come atto di religione, che discende dalla celebrazione dell'amore del Signore ( ). L'offerta è libera ed essa viene consegnata al presidente, cioè al vescovo, il quale personalmente penserà a soccorrere i bisognosi. Agostino ricordava ai fedeli quando scarseggiavano i fondi per i bisognosi (Possidio, Vita Aug. 24,14 e 17), cioè ricordava che il gazophylacium era vuoto. I tradizionali giorni di digiuno, in occasione delle Tempora e della Quaresima, si accompagnavano con l'elemosina ( ). La colletta avveniva durante la celebrazione liturgica episcopale, quando le offerte se deponevano su sette grosse tavole ( ). Le varie offerte dei cristiani e le oblazioni costituivano il fondo di beneficenza; nel IV secolo probabilmente si perde questo senso di solidarietà di tutta la comunità cristiana, dove tutti, come in Giustino, venivano coinvolti; ora ci sono speciali occasioni; inoltre la chiesa aumenta la sua proprietà, il patrimonio ecclesiastico (donazioni consistenti, beni immobili, munificenza degli imperatori), che serviva a tutte le spese ed anche alla carità cristiana ( ). L'elemosina, l'aiuta al povero, si vede anche nella prospettiva della mercatura celeste: fare un prestito a Dio: "Ti renderesti debitore lo stesso Padre Iddio, perché Egli quasi debitore per i doni con cui tu hai aiutato i poveri. Ti renderesti debitore anche il Figlio di Dio che dice: ebbi fame... " ( 9).

B) Ai tradizionali modi di raccogliere i fondi si aggiunge ora la possibilità di ricevere donazioni ( ) e le sovvenzioni statali ( ). Costantino concede privilegi alla chiesa, tra cui delle sovvenzioni. Teodoreto narra che dopo il banchetto a Nicea Costantino "diede loro (vescovi) delle lettere indirizzate ai funzionari che erano a capo delle singole province, per ordinare che in ogni città fossero fornite ogni anno distribuzioni di grano alle vergini perpetue e alle vedove e agli uomini consacrati al servizio divino" (HE 1,11,2-3); aggiunge che Giuliano le soppresse, ma vennero ristabilite per un terzo da Gioviano.

Le donazioni e i lasciti diventano un fatto normale durante il quarto secolo; esse vengono fatte in bonum animae, da moltissimi cristiani ricchi e meno ricchi; come si dice in un sinodo romano del 502, si fanno donazioni perché memores sui pro remissione peccatorum suorum et pro aeternae vitae mercaturae (Mansi 8,310). Questa concezione è estremamente importante, perché cambia totalmente la ragione e le motivazioni del dare: non per la gloria qui ed ora, ma la remissione dei peccati e la gloria eterna. Inoltre molte persone, volendo cambiare totalmente vita, vendevano tutto per dare il ricavato ai poveri o ai monasteri; in questo modo le proprietà andavano disperse e poi si esaurivano le fonti dell'elemosina, per questo i responsabili delle comunità consigliavano che era meglio fare dei lasciti di immobili. Queste persone facevano delle scelte radicali, come Paola che preferiva morire da mendicante ( ). La stessa amministrazione dei beni per scopo di carità era per Fabiola un genus infidelitatis, e voleva essere totalmente libera ( ). Anche Melania e Piniano svendevano tutto, ma non sempre ci riuscivano, come è il caso della loro domus sul Celio. Arrivati in Africa facevano altrettanto, ma i vescovi africani, tra i quali Agostino ed Alipio, consigliarono loro di donare beni immobili ed utilizzare il ricavato: "Quello che donate ai monasteri, in poco tempo si consuma. Se volete guadagnarvi un merito eterno, donate sia le case che le rendite" (Vita Mel. 20). Cfr. E.D. Hunt, Holy Land Pilgrimage Oxford 1982, 141. Anche Paola veniva consigliata da Girolamo ad essere cauta (Ep. 15,6). Seguendo tale consiglio essi donavano ai monasteri le rendite e non disperdevano la proprietà. Alla chiesa di Roma Anicia Faltonia Proba ( ), aveva lasciato clericis, pauperibus et monasteriis una rendita annuale proveniente dalle sue possessiones dell'Asia; il cui conduttore, qualche decennio più tardi, non pagando, causava un damnum pauperum, in quanto quei beni erano alimoniae pauperum ( ). Altrettanto fece la ricca Olimpiade per l'Oriente ( ). Cfr. Giardina, Carità eversiva 87ss. Vestina lascia un patrimonio a papa Innocenzo, che l'adopera per costruzioni e per i poveri (Liber Pont. 1,220). Si afferma ora un altro tipo di santità cristiana, che in passato era caratterizzata soprattutto dal martirio; ora vengono lodate quelle persone pie che lasciano i beni clericis, pauperibus et monasteriis.

Inoltre i membri del clero, specialmente i vescovi, erano esortati in maniera forte a lasciare i loro beni alla chiesa locale, che così accresce il suo patrimonio immobiliare.

D) Le collette speciali organizzate a Roma nel mese di luglio, tra il 5 e il 15, quando i pagani celebravano i ludi Apollinares, e nei giorni ufficiali di digiuno, erano state istituite con questo scopo. La festa pagana divenne l'occasione per la raccolta delle offerte per le necessità assistenziali. Leone Magno dice che la prassi era già molto antica (Serm. 10,1) e risaliva ai Patres; il papa in precedenza annunziava quando si doveva fare la colletta e stabiliva il giorno (Serm. 6-11); facevano la stessa cosa i presbiteri nelle varie regioni, in quanto la colletta era fatta in diverse chiese: per omnes ecclesias regionum vestrarum (Serm. 8), i tituli, che nel quarto secolo erano una ventina. Non ancora esistevano le diaconie, che saranno istituite posteriormente ( ).

Leone parla del digiuno come occasione per l'elemosina verso i poveri (Serm. 13) e dice che si soccorrevano tutti (Serm. 9,3). Gelasio, scrivendo ai vescovi del sud, dice che la quarta parte delle offerte e dei redditi era destinata ai poveri ( ).

E) Inoltre i fondi per l'assistenza provenivano anche dalle rendite dei patrimoni immobiliari, che si erano accumulate con i lasciti di ricche persone, con le donazioni straordinarie di qualche ricca famiglia, come avvenne tra la fine del quarto secolo e gli inizi del quinto. L'imperatore Costantino nel 326 formula un principio generale che gli opulentes devono sovvenire alle necessità della società, mentre i poveri devono essere sostentati dalle chiese ( ). Le motivazioni addotte dalla legislazione erano che le esenzioni accordate al clero arrecano vantaggio ai poveri ( ); nel 364 (CTh 13,1,5) Valentiniano ricorda che i cristiani (i chierici?) hanno la responsabilità di occuparsi dei poveri. Nel 357 l'imperatore Costanzo conferma i privilegi delle esenzioni alla chiesa romana (CTh 16,2,13). Qualche tempo dopo invia una lettera al vescovo Felice, per ricordare che i chierici godevano di alcune esenzioni (specialmente la hospitalitas), ma che dovevano impiegare il ricavato da attività commerciali a servizio dei poveri e dei bisognosi. Naturalmente il clero si preoccupava di aumentare il patrimonio ecclesiastico, sollecitando tali donazioni da parte di matrone. Per questo papa Damaso viene definito auriscalpius matronarum [Gesta 1,9-10: CSEL 35, p.]); anche Girolamo, sempre critico sulla vita del clero, presenta chierici che fanno visita alle matrone per ricevere donazioni. Massimo di Torino attesta lo stesso sistema per Torino ( ).

Conclusione

L'atteggiamento cristiano verso i poveri e la povertà manifesta una cambiamento di valori nella vita della città tardoantica. i poveri svolgono un "ruolo simbolico e sono portatori di un messaggio cerimoniale, un ruolo che può trasformarsi in vere sommosse sociali e di violenza, cosa che spesso avviene" (Drijvers p. 247); "La differenza tra il ricco e il povero sostituisce le modalità di rango e stato che soggiacevano ai gruppi civici del primo impero" ( ). La predicazione cristiana, strumento primario della comunicazione cristiana, è ricca di riferimenti alla povertà e alle sue forme sociali, alle varie categorie di bisognosi: dal prigioniero, al malato, all'orfano e alla vedova. Questa predicazione influisce a creare una nuova sensibilità e quindi nuove preoccupazioni. Anche il vocabolario per indicare i poveri subisce un cambiamento ( ). "l'autore cristiano evita normalmente quelle parole che hanno sfumature politiche, sociali o morali (infamis, ignobilis, insufficiens; humilior, tenuior); miser viene ad assumere una connotazione spirituale" ( ). Per i cristiani, che adoperano di preferenza il termine pauper, il povero è colui che ha fame, ha sete e freddo, e pertanto ha bisogno di essere aiutato in queste sue elementari necessità. Pietri, Pauvres 839ss; Lattanzio chiede polemicamente: "Qual è la ragione per cui [i pagani] non ritengono di dover soccorrere chi ha fame, chi ha sete e chi ha freddo?... L'unico certo e genuino compito della liberalità consiste nel sostentare gli uomini bisognosi ed inutili" ( ).


 

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