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GREGORIO TAUMATURGO: LA EPISTOLA CANONICA
by Angelo Di Berardino
Questo mio intervento comprende due punti: a) La regione del
Ponto al tempo dell’episcopato di Gregorio e la sua cristianizzazione
per capire il contesto della lettera canonica; b) L’Epistola
canonica. Si farà qualche cenno anche al diritto romano.
Questi due punti sono in relazione tra di loro e ci aiutano a
collocare storicamente le decisioni dell’autore dell’epistola
canonica. Qui parliamo di autore perché la tradizione l’attribuisce
ad una persona concreta, ma essa potrebbe essere anche il frutto
di un sinodo locale, sotto la presidenza di Gregorio, che poi
avrebbe steso il testo finale.
a) Il territorio dell’attività di Gregorio è
la città di Neocesarea (oggi Niksar) ed i suoi dintorni,
nel cuore del Ponto. Il Ponto era la regione dell’Asia Minore
sulla costa del Mar Nero, confinante ad est con la Colchide (la
Georgia occidentale) e l’Armenia, ad ovest con la Paflagonia
e sud ovest con la Galazia, ed a sud est con la Cappadocia. È
dominata da montagne e valli con i fiumi Halys (Kizil Irmak, ad
est di Ankara), Iris (Yesil) e Lycus (Kelkit Çayi). Questa
è una indicazione geografica generica, perché dal
punto di vista politico ed amministrativo i suoi confini sono
variati a seconda dei governanti e del tempo. Infatti la provincia
romana detta Bithynia et Pontus, organizzata da Pompeo e di cui
fu governatore Plinio il Giovane (111-113) , comprendeva, oltre
la Bitinia (con la città di Nicomedia [Izmit.]) sul mar
di Marmara e sul Bosforo, la Paflagonia (a nord di Ankara) e una
piccola parte del Pontus, la parte più ellenizzata sulla
costa, le città di Sinope (Sinop), patria di Marcione,
e Amisus (Eski Samsun). Nel corso del primo secolo, su richiesta
di Corbulone, negli anni 63/64 il territorio del regno di Polemone
II (Pontus Polemoniacus) fu annesso alla provincia romana della
Galazia con due distretti: Pontus Galaticus (metropolis Amaseia,
dal 2 a.C) dal fiume Halys al fiume Thermodon e il Pontus Polemoniacus
(la cui metropolis è Neocaesarea ), che comprendeva le
città di Comana, Polemonium, Cerasus and Trapezus. Quest’ultimo
distretto comprendeva la regione montagnosa del Ponto, la valle
del Lycus, la costa ad oriente della città libera di Amisus,
ricco centro commerciale, fino alla Colchide. I due territori,
quantunque sottoposti al governatore della Galatia, formavano
distretti distinti, e, per ragioni strategiche e militari, passano
ad essere parte della provincia di Cappadocia (110 d.C.) al tempo
di Traiano e sono sottoposti al suo legato ; Neocesarea è
la metropolis del distretto del Pontus Polemoniacus. La scoperta
recente di due iscrizioni mostra che sotto Alessandro Severo si
costituisce la provincia del Ponto, ma non si conoscono i suoi
confini esatti . Con la riforma di Diocleziano il Pontus Polemoniacus
diventa provincia e Neocaesarea ne resta la capitale. Gregorio
opera nell’ambito di questa provincia e pù precisamente
nel distretto del Pontus Polemoniacus in stretto rapporto con
la provincia della Cappadocia. Successivamente, con la riorganizzazione
di Diocleziano, si avrà un’altra struttura provinciale,
che esula dal nostro interesse.
I vescovi risiedevano nelle città, che erano punti di
irradiazione del cristianesimo. La sede di Gregorio è la
città conosciuta con il nome di Neocesarea nella valle
del Lycus. Essa aveva subito cambiamenti di nome a seconda dei
tempi. Quello più antico era stato Cabeira, che probabilmente
con Pompeo (†48 a.C.) si chiamò Diospolis. La città
fu data da Antonio al re Tolomeo I, la cui vedova, riconosciuta
come regina, la fece sua capitale con il nome di Sebaste. Al tempo
di Nerone (54-68 d.C.), la città fu annessa alla provincia
romana di Galazia e prende il nome di Neocaesarea, per indicare
una nuova rifondazione ed un nuovo inizio; al tempo dell’imperatore
Adriano, essa viene anche detta Hadriane (cfr. Barrington Atlas
p. 87). La città si trovava alle pendici occidentali del
Paryadres Mons, dominante la valle del Lycus, affluente del fiume
Iris, a circa 50 Km da Comana Pontica e a circa 100 dalla costa
del Mar Nero. Neocesarea, che ora poteva vantare un imperatore
come suo fondatore, era una città in piena fioritura nel
terzo secolo, come attestano le monete che riproducono i suoi
edifici e i simboli dei giochi per onorare le divinità
locali.
Pertanto il termine Ponto non ha un senso univoco, ma dipende
via via dal contesto politico e amministrativo e dall’uso
ordinario che ne fa la popolazione. In queste province durante
il periodo romano aumenta l’urbanizzazione, in quanto la
popolazione prima viveva soprattutto nei villaggi, sia mediante
l’afflusso nei centri urbani esistenti e sia anche con la
fondazione di nuove città e con la creazione di colonie
romane. Inoltre i romani favoriscono la diffusione della lingua
e della cultura greche, specialmente nelle città e tra
le classi colte, poiché vi si parlavano i dialetti locali
anatolici, che resisteranno a lungo a seconda delle zone. Nel
versante settentrionale, attraversato da torrenti scoscesi, del
monte Paryadres ancora nel primo secolo abitavano popolazioni
semibarbare.
Il cristianesimo, almeno nelle città della costa, era
diffuso già dagli inizi del secondo secolo, stando alle
testimonianze della Prima Lettera di Pietro, di Plinio, che parla
del cristianesimo diffuso anche nei villaggi, dell’odio
di Alessandro di Abonutheicos, del II secolo, contro i cristiani,
che dovevano essere numerosi nella zona, e di Marcione, figlio
del vescovo di Sinope. La Epistola canonica di Gregorio Taumaturgo
fa tutta una casistica, insinuando l’idea che nella metà
del terzo i cristiani erano numerosi; anche la leggenda, secondo
la quale alla morte di Gregorio praticamente i pagani erano scomparsi,
deve avere qualche fondamento storico, perché altrimenti
chiunque poteva verificare la consistente presenza pagana. Ma
non certamente essa era stata ridotta a solo 17 pagani alla morte
di Gregorio, se ancora nella metà del terzo secolo vi si
celebravano importanti giochi e la regione è fortemente
pagana con i suoi culti tradizionali e le feste locali, oltre
alla pratica della prostituzione sacra nella vicina Comana. Anche
il fratello di Gregorio, Atenodoro, dice Eusebio, divenne vescovo
operando in quella parte dell’Asia Minore, ma ne ignoriamo
la sede episcopale. Nel Ponto c’erano grandi possedimenti
terrieri: tenendo presente la psicologia e la prassi, se si convertiva
il padrone, facilmente diveniva cristiana “tutta la sua
casa”. Tuttavia allora non esistevano le condizioni per
una conversione di massa, sia perché questo fenomeno avviene
quando è un re che si converte, com’è il caso
della vicina Armenia agli inizi del quarto sceolo, e sia perché
le esigenze di istruzione catecumenale erano già affermate.
Tali esigenze richiedevano personale qualificato e tempi lungh,
poiché già si prestava molta attenzione alla formazione
individuale. Inoltre restava la difficoltà del dialetto
locale, superabile solo se il clero cristiano lo conosceva. Lo
conosceva anche Gregorio? In ogni caso Gregorio ha contribuito
in modo efficace alla cristianizzazione della regione. L’organizzazione
ecclesiastica normalmente si adeguava alle strutture amministrative
romane, e soprattutto era urbana, per questo il vescovo doveva
mandare emissari nelle campagne per esaminare i cristiani colpevoli
(Epistola Canonica, can. 6).
La metà del terzo secolo è molto critico per l’Impero
romano per le molte guerre ed invasioni in tutte le zone di frontiera.
In Oriente si svolgevano le invasioni sassanidi di Shapur, i quali
più volte invasero province dell’Impero romano. Nel
256 saccheggiarono anche la Cappadocia e l’Armenia, conquistando
Satala (oggi Sadak, nella zona di Kelkit, dove stazionava la legio
XV Apollinnaris, nell’Armenia Prima), e il suo territorio.
Le frontiere erano un po’ sguarnite dell’esercito,
forse perché le forze romane si erano preoccupate della
inefficace difesa di Trapezunte per le invasioni provenienti dal
Nord. Di nuovo essi occuparono la Cappadocia e Cesarea nel 259/260.
I goti e gli sconosciuti Boradi (o Voradi, Boranoi ) tentano
una prima invasione nel 354/255, ma vennero sconfitti dal prefetto
al pretorio Succesianus a Pityus (oggi Pitsunda, in Georgia),
ma essi arrivano a Trapezunte; il secondo tentativo non molto
tempo dopo avvenne verso il 258 , con il saccheggio della città
di Trapezunte e dei territori vicini ; una terza invasione fu
condotta dopo la morte di Valeriano, al tempo dell’imperatore
Gallieno verso il 261-262; essa riguarda tutta l’Asia Minore
del nord partendo da ovest verso est. I goti devastano alcune
province (Zosimo 1,31-36); non erano invasori con l’idea
di stanziarsi ma di depredare e deportare prigionieri, molti dei
quali erano cristiani, dalla Cappadocia e dalla Frigia. Tali invasioni
seminarono lutti e rovine, e gli abitanti di Stratonicea, nel
sud dell’Asia Minore nella Caria, si rivolsero ad un oracolo
per sapere se anche loro avrebbero subito una invasione . Gli
antenati di Wulfila, l’evangelizzatore dei goti, erano tra
i deportati dalla Cappadocia, da un villaggio vicino alla città
di Parnassus . Come pure quelli del vescovo Selenas dalla Frigia.
I deportati cristiani dovevano essere molti. Le chiese di Cappadocia,
e supponiamo anche le altre comunità dell’Asia Minore,
si dedicarono al loro riscatto, ma molti restarono tra i goti
e fondarono delle comunità cristiane . Filostorgio scrive
che i goti (sciti) avendo invaso le province romane di Asia, di
Galazia e di Cappadocia, oltre al bottino, portarono con sé
molti prigionieri, tra i quali membri del clero. I buoni cristiani
deportati convertirono molti barbari. Per qualche decennio tutta
la regione ebbe a soffrire dallo spostarsi di invasori e eserciti.
Anche questi, come ci ricorda il Manzoni nei Promessi Sposi, causavano
danni a spese della popolazione. Basilio di Cesarea nel 371 ricorda
in una lettera a papa Damaso che il suo predecessore Dionigi (259-268)
aveva inviato aiuti per il riscatto dei prigionieri fatti dai
goti, ed esisteva memoria scritta ed orale di quell’aiuto
(cfr. Basilio, Ep. 70).
Ora secondo la ricostruzione di Salamon, l’invasione del
261/2 non sembra che tocchi la regione del Pontus Polemoniacus,
regione dell’attività di Gregorio, mentre quella
nel 266 raggiunge il Ponto. Un’altra invasione ancora avviene
nel 275, ma i goti furono sconfitti dall’imperatore Probo.
b) Epistola canonica.
Una di queste invasioni gotiche, avvenute al tempo dell’imperatore
Valeriano, è lo sfondo storico dell’Epistola canonica.
La più probabile è quella del 258 (255/256), per
diverse ragioni. La prima poiché si nominano gli invasori
Boradi e Goti, i quali in quella occasione operarono insieme sia
secondo la testimonianza del canone cinque dell’Epistola
e sia per la testimonianza di Zosimo . Inoltre, come sappiamo,
tale invasione non raggiunse la regione di Gregorio Taumuturgo,
ma solo la costa orientale del Ponto. Il canone sei suggerisce
che i crimini erano avvenuti lontano dal luogo della sua residenza,
ed egli ne aveva avuto conoscenza indiretta dalla epistola del
consultante, che potrebbe essere il vescovo di Trapezunte (Trebisond),
città che fu saccheggiata durante la seconda incursione
barbarica ed era la sede della flotta romana. Il destinatario
è chiamato pappas (padre), che esercitava autorità
in città e nella campagna circostante, quindi un vescovo
urbano. Ed infine, come afferma Zosimo ed anche si deduce dalla
Epistola canonica, lo scopo dell’invasione era la razzia
di beni e di persone, e non di conquista.
Tale epistola risponde ad una serie di quesiti angoscianti di
carattere etico per la soluzione di casi concreti rivoltigli da
un pastore, che doveva risolvere casi concreti di peccatori. Erano
casi nuovi rispetto alla esperienza di peccati e di peccatori
nella vita abituale di una comunità cristiana e pertanto
esigevano risposte nuove. Bisognava inoltre trovare anche le motivazioni
e le modalità per condannare alcuni precisi comportamenti
non comuni. Per esempio, come giudicare le donne che erano state
violentate dai goti? In mancanza di un’autorità politica
efficace, la chiesa faceva fronte, con i suoi mezzi spirituali,
alla grave situazione materiale e morale della regione del Ponto
creatasi con una invasione. Questo è un aspetto nuovo che
emergerà sempre di più nel periodo tardoantico.
La Epistola di Gregorio può essere studiata sotto diverse
prospettive: la tradizione manoscritta, la sua autenticità,
la sua integrità; come testimonianza della disciplina penitenziale
della chiesa dagli storici della penitenza; come documento per
sapere cosa avveniva durante una invasione e le sue conseguenze,
ma anche del ruolo che la chiesa svolgeva in occasione di una
invasione per la confusione politica e l’assenza delle autorità
politiche nel far osservare le leggi. Avevo pensato anche di vedere
se ci fossero presenti, nella lettera, elementi del diritto romano,
perché Gregorio aveva appreso i primi rudimenti di latino
per studiare diritto, di cui aveva acquistato una qualche conoscenza
nella scuola di un retore che “non era del tutto ignorante
delle leggi” (Panegirico 5,58) già a Neocesarea,
sua città natale. La città godeva anche di un certo
prestigio per le scuole, perché il giurista Modestino parla
di sofisti, medici e grammatici (Dig. 27,1,6,9). Egli aveva trovato
difficoltà nell’apprendere il latino, allora lingua
indispensabile per entrare nell’amministrazione imperiale,
ma apprezzava grandemente “le nostre mirabili leggi, con
le quali si regolano gli affari di tutti gli uomini sudditi del
potere di Roma e che non si possono applicare né apprendere
senza un impegno approfondito; sono infatti sapienti, precise,
articolate, efficaci” (Panegirico 1,7). Studiare il diritto
esigeva anche la conoscenza del latino. Il latino da apprendere
era quello giuridico con la sua terminologia tecnica, che mancava
in quella greca. Le leggi erano redatte in latino e la loro applicazione
esigeva spesso anche l’interpretazione, per cui ad un livello
più alto si richiedeva la conoscenza di esse, la terminologia
tecnica e quanto affermavano i grandi giuristi. Per l’insistenza
del suo docente, Gregorio si applicò allo studio del diritto
romano “più per compiacere alla persona che per amore
di quel mestiere” (Panegirico 5,58), perché “lo
studio delle leggi sarebbe stato il miglior viatico sia che volessi
diventare un retore di quelli che contendono nei tribunali, sia
che scegliessi un altro mestiere” (o.c. 5,60). Questo altro
mestiere era la carriera nell’aministrazione imperiale sia
centrale che periferica. Per un certo periodo si era applicato
allo studio del diritto in vista di perfezionarsi nella scuola
specialistica di Roma (cfr. o.c. 5,64 e 67); ma per il fatto che
il marito di sua sorella, consulente legale, era stato chiamato
in Palestina, allora Gregorio e sua fratello Atenodoro scelsero
di perfezionaris a Berytus (Beirut) , l’unica scuola specializzata
in Oriente fondata da qualche decennio, ma meno richiesta di Roma.
Ma il cambio di interesse per la fislosofia gli fece abbandonare
lo studio delle “mie belle leggi” (o.c. 6,84). Pur
non avendo avuto una completa formazione giuridica, egli pensa
che, facendo ritorno alla sua città, dovrà esercitare
il mestiere di avvocato, poiché dovrà affrontare
“le piazze e i tribunali e la folla e l’ostentazione”
(o.c. 16,192) e discorrere delle “azioni degli uomini, […]
e perfino di quelle degli uomini malvagi” (o.c. 16,193).
Forse l’elezione all’episcopato non gli ha permesso
di divenire “un perfetto giurista romano o un filosofo greco”
(Origene, Ep. a Gregorio 1: PG 11,88).
Alcune delle questioni affrontate dalla lettera riguardano specificamente
la vita cristiana, per esempio quella di cibarsi degli alimenti
offerti agli idoli pagani; altre invece toccano problemi vari
di proprietà così come si potevano configurare secondo
il diritto romano e pertanto di competenza delle autorità
civili. L’autore invece, pur tenendo presente la casistica,
offre soluzioni che si collocano ad un livello più alto,
quello della coscienza e del rispetto del diritto altrui. La soluzione
di quei casi non si basa sulla legge romana, ma sulla tradizione
rleigiosa cristiana. Infatti tutti i riferimenti interni per dare
valore e fondazione alle soluzioni proposte per i singoli casi
esaminati sono biblici, presi sia dall’AT (Genesi, Giosuè,
Deuteronomio), che dal NT (quattro citazioni su nove). L’argomentazione
biblica è fondante per la morale cristiana. Manca qualsiasi
accenno al diritto penale romano e alla configurazione dei crimini
secondo le leggi, i quali invece sono indentificati in base alle
proibizioni bibliche del rispetto dei beni altrui. Inoltre le
pene inflitte sono solo di carattere ecclesiale e non sociale,
e non hanno conseguenze penali al di fuori della comunità.
Eppure Gregorio aveva una certa conoscenza del diritto romano.
Una mentalità giuridica si manifesta invece nella ripetuta
insistenza che ogni decisione di condanna o di assoluzione deve
seguire un rigoroso processo, con accusatori e prove, e relativa
decisione finale (canoni 8, 9).
La lettera di Gregorio, chiamata ‘canonica’ perché
fu introdotta nelle collezioni canoniche greche, per facilitarne
l’uso fu posteriormente suddivisa in 11 canoni, che nelle
collezioni sistematiche erano collocati a seconda degli argomenti.
La suddivisione in canoni è artificiale e tradisce l’intervento
di qualche canonista. I canoni due e tre appartengono alla esposizione
della stessa norma. Le espressioni iniziali dei canoni 6, 7, 8,
9 [riguardo a quelli che...] riassumono l’argomento del
canone e pertanto sono redatti secondo la prassi conciliare del
secolo quarto con titoli per indicare in modo breve il contenuto.
Pertanto i titoli sono da considerarsi interpolazioni del redattore
canonistico, che ha suddiviso il testo, che doveva avere una struttura
continua propria di una lettera, anche se affrontava una casistica
precisa e doveva indicare la soluzione ai singoli casi. Il canonista
probabilmente ha eliminato qualche frase ed ha spezzettato la
lettera, per renderla più utilizzabile ai fini pratici,
secondo la prassi conciliare.
La caratteristica delle Epistole canoniche, introdotte nel corpus
conanistico bizantino, consiste nell’utilizzare il genere
epistolare per fornire soluzioni normative e disciplinari, per
lo più di carattere penitenziale, a delle situazioni specifiche;
esse non hanno carattere dottrinale. Le norme proposte si basano
normalmente sulle citazioni scritturistiche anche con esempi biblici
di casi analoghi.
L’ultimo canone, l’undicesimo, non sembra di Gregorio,
che conosce solo due classi di colpevoli pentiti, che si sottomettevano
alla penitenza canonica. Tale canone distingue quattro classi
di penitenti: 1) “i piangenti davanti alla porta della chiesa”;
2) gli audientes, che sono dentro l’edificio cultuale e
partecipano soltanto alla liturgia della parola e poi escono;
3) il gruppo dei “prostrati , che, stando dentro la porta
del tempio, escono con i catecumeni”; 4) quelli infine che
partecipano con i fedeli a tutta la liturgia. Il sistema proposto
è troppo elaborato per la metà del terzo secolo,
poiché anche il concilio di Neocesarea, la città
di Gregorio, celebrato tra il 314 e il 319, parla di due classi
di penitenti soltanto. Inoltre le due classi (i piangenti e i
prosternati, la prima e la III classe) si riscontrano solo al
quarto secolo. Per questo secondo alcuni autori il gruppo dei
prosternati dei canoni 8 e 9 è poco sicuro che esistesse
già nel terzo secolo, perché il suo significato
preciso risale alla fine del IV secolo . Joannou scrive che gli
audientes non costituiscono una vera classe; ritiene che per Gregorio
esistano solo due gruppi: quelli che erano stati esclusi dalla
comunione e chiedono di essere ammessi alla penitenza e i penitenti
veri e propri. Per questo il canone 11 non può essere che
della fine del secolo IV . Esso ha somiglianza con uno scolio
al canone 75 di Basilio, che riporta con lo stesso titolo un medesimo
testo in termini meno concisi, ma senza menzione degli audientes.
Esso è un estratto del “canone di Palladio”
. Joannou scrive che “In ogni caso tutti i manoscritti che
abbiamo collazionato ignorano questo canone” . Il canone
undicesimo è una descrizione troppo dettagliata dei vari
gradi della penitenza canonica, poiché tale organizzazione
penitenziale si sviluppa e si organizza solo nel corso del quarto.
Anche il Favazza pensa che il canone undicesimo sia stato redatto
posteriormente per dimostrare l’esistenza di una continuità
nella disciplina penitenziale nella Cappadocia ed accetta le due
categorie di audientes e prostrati. Tuttavia il ragionamento può
essere rovesciato, nel senso che Gregorio Taumaturgo ne sarebbe
la prima testimonianza, come fa il Grotz . Anche Lane Fox e Phouskas
ne ammettono l’autenticità . Inoltre il canone suppone
anche un edificio di culto già ben strutturato e grande,
come le basiliche del quarto secolo, con le sue varie parti esterne
ed interne: una parte esterna, come un cortile, dove si fermava
una classe di penitenti (i piangenti), ma fuori della porta dell’aula
di culto (non potevano sostare nella strada, troppo pubblica),
per implorare i fedeli che entravano; un’altra classe (gli
audientes) invece sostava nel nartece per il tempo della liturgia
della parola (cfr. Heather p. 10, nota 26 per i vari gradi). Infine
l’aula di culto doveva essere molto grande per accogliere
sia i fedeli che i catecumeni, che occupavano una loro sezione.
Gregorio di Nissa, nel panegirico, accenna che la costruzione
della chiesa era stata iniziata da Gregorio, e fu terminata dal
suo successore: ed era ancora esistente al suo tempo ben resistente
al terremoto. Il Nisseno, nell’esaltare il Taumaturgo, avrebbe
avuto tutto l’interesse nel dire che l’edificio di
culto fosse già stato completato durante la sua vita.
Già dalla prima edizione del Voss (Magonza 1603) la Epistola,
viene riportata con i commenti di due grandi canonisti bizantini:
Teodoro Balsamone e Giovanni Zonara, perché era stata inserita,
come si è già accennato, nel corpus del diritto
canonico bizantino. Anche le edizioni successive talvolta, non
sempre, riportano tali commenti, che sono inclusi nell’edizione
del Migne (PG 10,1019). Oggi essa viene citata normalmente secondo
la edizione di Joannou, che ha raccolto tutti i testi antichi
del diritto canonico orientale. Una edizione più recente
di Constantinos Fuskas con commento in greco è stato pubblicato
nel 1978; egli divide il primo canone in due, per cui ne risultano
dodici invece dei tradizionali undici.
Perché questa Epistola ha avuto tanto successo? Lo scopo
primitivo era quello di applicare la prassi canonica, normalmente
non scritta, per risolvere casi concreti sorti in conseguenza
dell’invasione gotica. L’autore motiva le sue soluzioni
facendo riferimento alla Scrittura, specialmente all’AT
e meno al NT. La chiesa antica e medievale non ha compilato un
codice di diritto canonico, pur conoscendo l’esperienza
romana della codificazione del Codex Theodianus e del Codex Iustinianus.
La chiesa latina ha elaborato un codice completo, sul modello
di quello civile, solo nel 1917; quella orientale cattolica solo
recentemente, mentre le altre chiese non posseggono un codice
di diritto canonico, ed ancora oggi fanno ricorso ad una collezione
di antichi testi non elaborati sistematicamente ed unitariamente,
i quali talvolta sono in contraddizione tra di loro. Inoltre la
chiesa neanche si è preoccupata di fare una collezione
ufficiale dei testi principali, pubblicati sia dai concili oppure
da singole persone, che riguardassero la vita dei fedeli, del
clero, delle istituzioni. Tutte le raccolte di testi di carattere
canonico-liturgico che noi conosciamo sono state elaborate da
privati, anche se poi sono state usate ufficialmente.
Ora una differenza fondamentale però emerge subito tra
le collezioni occidentali di testi di carattere canonico e quelle
orientali. Quelle occidentali incorporano le Decretali, cioè
lettere pontificie, che affrontano questioni disciplinari ed organizzative.
Invece quelle orientali, accanto alle decisioni conciliari, riportano
lettere di alcuni grandi Padri della Chiesa di lingua greca. Inoltre
le collezioni di lingua greca non riportano canoni dei concili
occidentali, eccetto quelli del concilio di Serdica e la collezione
africana, cosiddetta del concilio di Cartagine. Mentre le collezioni
occidentali riportano sia i testi dei concili ecumenici che di
quelli particolari tenutisi nel IV secolo, ma non quelli dei Padri.
Il concilio in Trullo [il nome proviene dalla sala del palazzo
imperiale] (detto anche concilio Quinisesto), celebrato a Costantinopoli
tra il 691 e 692, considerato ecumenico dagli orientali, al canone
secondo, presenta un elenco delle fonti canoniche riconosciute,
tra le quali annovera la Epistola canonica di Gregorio, riprendendo
la collezione che si era già formata a Costantinopoli.
c) Il contenuto della lettera.
Come si è già accennato, la lettera doveva avere
una stesura continua, ma in un momento successivo suddiviso in
canoni per meglio facilitarne l’uso. Gli argomenti trattati
si possono riassumere così: impurità dei cibi e
violenza sulle donne (can. 1); appropriazione indebita dei beni
altrui per avidità (2-5; 8-9); appropriazione di fuggitivi
e collaborazione con i barbari (6-7); una possibile ricompensa
per la denuncia di colpevoli (can. 10).
Il primo canone, con un amalgama infelice, affronta due questioni
totalmente diverse. La prima parte riguarda i cibi eventualmente
offerti agli idoli durante i sacrifici, che i cristiani erano
stati costretti a mangiare dagli invasori. Un problema delicato
e dibattuto già dal tempo di san Paolo. Il timore nasceva
dalla preoccupazione che la carne fosse immolata agli idoli e
pertanto era sta contaminata dai demoni. Le autorità pagane
usavano offrire ai cristiani tali cibi per verificare la loro
sincerità nel rinnegare il cristianesimo (cfr. Plinio,
Ep. X,110). Gregorio, che si mostra informato sul comportamento
dei barbari, risponde che non consta che essi abbiano prima fatto
dei sacrifici agli idoli e poi abbiano costretto a mangiare quegli
alimenti. Inoltre, citando san Paolo e il vangelo, afferma che
il Signore ha purificato ogni tipo di carne; non quello che entra
contamina l’uomo, ma quello che esce (1Cor 6,13; Mt 15,10).
Pertanto non bisogna inquietare le coscienze cristiane, così
sensibili alla problematica.
La seconda parte del canone tratta del caso delle donne prigioniere
abusate dai barbari. Gregorio si mostra prudente e distingue due
situazioni diverse : a) quelle donne che in precedenza avevano
avuto una vita che dava luogo a sospetti, in altre parole che
“andavano dietro gli occhi dei fornicatori” (Ez 6,9),
è da supporre che abbiamo mancato volontariamente in tempo
di prigionia, e quindi non bisogna facilmente ammetterle alla
comunione eucaristica. b) Quelle invece che prima avevano avuto
una condotta irreprensibile non devono essere considerate colpevoli
e pertanto potevano partecipare pienamente alla preghiera della
chiesa, in altre parole partecipare all’eucarestia. Il vescovo
pertanto doveva usare discernimento e prudenza e doveva giudicare
caso per caso, magari ricorrendo anche ad informazioni da ottenere
da altre persone, e quindi era caricato di maggiore responsabilità.
Gregorio fonda la sua soluzione ricorrendo ad un caso simile del
Deuteronomio (Dt 22,26-27).
Il secondo canone, che tematicamente va unito al terzo, ed è
il più lungo, affronta il fenomeno dello sciacallaggio
che si verifica in casi di grande calamità, com’è
una invasione, con il saccheggio e l’impossessarsi dei beni
altrui. Gregorio non solo redige delle prescrizioni, ma anche
condanna la radice di tali comportamenti e cioè la cupidigia,
fonte di ogni male, poiché “per la cupidigia accumulano
l’ira [di Dio] e su di sé e su tutto il popolo”.
Nella sostanza è l’argomento centrale della lettera,
che esprime una condanna morale e cristiana, ma anche che esige
la restituzione dei beni altrui. Le tre citazioni bibliche (Gen.
18,23; Col 3,5; Ef 5,7-13), su nove di tutta la lettera, giustificano
la sua presa di posizione. Inoltre Gregorio si mostra preoccupato
che il male di alcuni attiri la punizione divina su tutto il popolo.
Per questo la responsabilità dei pastori nell’indagare
e punire adeguatamente i colpevoli non ha solo lo scopo di discernere
chi può partecipare all’eucarestia, chi invece deve
fare penitenza e chi deve essere allontanato, ma anche uno scopo
di forte esortazione alle persone che hanno delle reposnabilità
ecclesiali.
Questo ampio canone, proprio per il suo carattere didattico e
parenetico, costituisce la premessa per le soluzioni che vengono
date poi per i singoli casi nei canoni seguenti. Gregorio si mostra
molto severo con chi ha osato pensare che “il tempo, apportatore
di rovina per tutti, costituisse il momento opportuno per i propri
guadagni; è proprio degli uomini empi ed odiati da Dio”.
Essi ricavano un guadagno ingiusto “dal sangue e dalla rovina
di uomini in fuga”. Se il rubare è peccato, dice
Gregorio, e il ladro va scomunicato, cioè privato della
comunione eucaristica, molto di più è colpevole
chi si approfitta, nel mezzo di una invasione, delle sventure
altrui, impossessandosi dei suoi beni. Sono riprovevoli quelle
persone che considerano le disgrazie altrui come mezzo di arricchimento;
si prendono non gli averi di nemici, ma dei propri fratelli (fratello
in questo caso non sembra avere una connotazione religiosa nel
senso di un fratello nella fede, ma di concittadino). Tali persone
devono essere assolutamente separate dalla comunità per
evitare che la maledizione ricada su tutto il popolo, ma soprattutto
su coloro che detengono l’autorità e non fanno le
dovute ricerche per punire i colpevoli. La responsabilità
delle autorità è grave per evitare una punizione
divina collettiva, perché la non punizione del colpevole
può essere un danno per tutta la comunità. Il concetto
della solidarietà nella colpa deve rendere tutti vigili.
Anche per la soluzione di questo caso si fa ricorso ampiamente
alla Bibbia, all’Antico Testamento e al Nuovo Testamento.
Il canone quarto riguardo coloro che, almeno così essi
dicono, si erano impossessati di beni abbandonati. Se la Scrittura
comanda che tali beni, anche se fossero di nemici, vanno restituiti
al legittimo proprietario, quanto più questo va fatto nel
caso in cui il proprietario, per l’avversità, sia
stato costretto a fuggire dai nemici e li abbia abbandonati, per
mettersi in salvo. La canone quinto afferma che la ritenzione
dei beni altrui non può considerarsi neanche come compensazione
per la perdita dei propri. Tali persone diventano allora “boradi
e goti per gli altri”. Gregorio inoltre scrive che egli
invia Euphrosynus, qualificato come “fratello e syngeron”,
probabilmente un presbitero della chiesa di Neocesarea, con istruzioni
per applicare la prassi da lui seguita nella sua comunità,
perché lo consigli su “contro chi accettare le accuse
e chi dovrebbe essere escluso dalla preghiere”. Questa ultima
testimonianza, a quanto mi risulta, non è stata pienamente
valorizzata per conoscere la prassi del tribunale del vescovo,
prima della istituzione della episcopalis audientia con Costantino;
anche i canoni seguenti sono illuminanti nei riguardi del funzionamento
del tribunale episcopale. I cristiani, a partire da san Paolo,
erano esortati a portare i loro litigi davanti ai rappresentanti
della comunità cristiana e non di fronte alle autorità
pagane. San Paolo rivolgendosi ai corinzi ammonisce: “Vi
è tra voi chi, avendo una questione con un altro, osa farsi
giudicare dagli ingiusti anziché dai santi? [...] Cosicché
non vi sarebbe proprio nessuna persona saggia tra di voi che possa
fare da arbitro tra fratello e fratello? ». (1Cor 6,1-4).
Non era un vero processo, ma una forma di arbitraggio, riconosciuto
dal diritto romano ed ampiamente praticato e quindi non un vero
atto di giurisdizione. I caratteri di questo giudizio era l'arbitrato
privato, animato da uno spirito religioso con lo scopo etico ed
evangelico nell'ambito della comunità cristiania, di creare
un clima di pace e di perdono. Infatti il vescovo, nella sua comunità
essendo giudice, era coinvolto nelle liti locali non solo di carattere
religioso, ma anche civile tra i cristiani. La Didascalia Apostolica
in diverse occasioni parla dell’azione giudiziria del vescovo
(2,38,1-3 2,47,1; 49; 50; 51). Nello stesso periodo di Gregorio,
Cipriano a Cartagine esige lo stesso comportamento dai cristiani:
Fideles se disceptantes non debere gentilem iudicem exeperiri
(Testimonia III,44). Gregorio di Nissa accenna all’attività
pacificatrice di Gregorio Taumaturgo a Neocesarea, il quale ricorre
ad un miracolo per convincere due fratelli recalcitranti a non
litigare per la proprietà (Vita Greg. Thaum. PG 46,924D-928D).
Invece nei casi discussi in questi canoni non è questione
della libera scelta di contendenti di accedere al giudizio del
giudice ecclesiastico, com’è la prassi dell’arbitrato,
ma l’iniziativa giudiziaria è un grave obbligo morale
del vescovo, che deve procedere anche a compiere delle indagini.
Il canone sei tratta di coloro che hanno preso dei prigionieri
fuggitivi per tenerli al loro servizio come schiavi commettendo
un atto inumano e crudele. Queste persone dovevano essere cives,
cioè cittadini liberi. Perché se erano schiavi la
loro condizione giuridica era diversa ed anche le prescrizioni
del diritto differivano. Il caso discusso è il riflesso
della condizione giuridica dei cittadini. Un caso simile si riscontra
in una lettera recentemente scoperta di Agostino sulla condizione
giuridica di cittadini rapiti nell’Africa romana (Ep.24*
Divjak). In occasione delle invasioni di questo periodo nella
regione microasiatica ci resta una preziosa tetsimonianza epigrafica
sepolcrale, nella Lydia, di uno schiavo deportato dai barbari,
e morto nel 263, il quale era tornato dopo sei mesi passati nelle
loro mani . Un segno della fedeltà ai suoi padroni. Gregorio,
per il caso di ritenzione di fuggitivi, richiede la stretta vigilanza
del vescovo e ordina che si inviino degli emissari nelle campagne
per esaminare quelli che hanno compiuto azioni malvage.. Tale
inchiesta riguardava solo i cristiani, e non i pagani, perché
il tribunale del vescovo non poteva sostituirsi a quello civile,
in quanto non era era in grado di farlo per mancanza di personale
adatto e dei mezzi di coercizione fisica. Quelli che avevano collaborato
(canone 7), in vario modo, con i barbari, “dimentichi di
essere del Ponto e cristiani”, ed avevano indicato le strade
e le case o altro da rubare non potevano partecipare neanche come
audientes nelle assemblee liturgiche. Questi tali si sono comportati
da barbari così da uccidere persone della loro razza; non
esiste penitenza per loro. La stessa sorte per quelle persone
(can. 8) che, approfittando dell’incursione, sono entrate
nelle case altrui (per rubare): se si dimostra il loro reato mediante
l’accusa non devono essere annoverati neanche tra i penitenti
e quindi definitivamente recisi dalla comunità; mentre
quelli che si autodenunciano devono sottostare alla penitenza
canonica. La stessa prassi penitenziale (can. 9) è riservata
anche per chi è stato dimostrato colpevole di essersi impossessato
di oggetti lasciati dai barbari (forse oggetti rubati); invece
chi si autoaccusa liberamente, e supponiamo con la restituzione
del rubato, viene immediatamente perdonato con l’ammissione
alla comunione. Questi due ultimi canoni, otto e nove, suppongono
un processo davanti al vescovo con un accusatore e con la condanna
del colpevole. Gregorio mette in conto il pentimento e la collaboarzione.
Chi si autodenuncia dà segni di ravvedimento e viene usata
clemenza verso di lui; invece chi si ostina a negare e la colpevolezza
viene dimostrata mediante testimoni, per lui non c’è
misericordia. La responsabilità del vescovo era duplice
in questi processi. Se da una parte doveva giudicare chi poteva
essere ammesso alla comunione e quindi doveva conoscere la condotta
dei fedeli, dall’altra egli veniva sollecitato a dare un
suo giudizio di colpevolezza o di innocenza dopo una regolare
inchiesta. Chi sono quelli che accusano gli altri? Erano cristiani?
Oppure anche pagani che ricorrevano al vescovo per riavere i propri
beni? Il vescovo poteva e doveva ricorrere a testimoni, che potevano
anche essere pagani. Il canone dieci afferma che i denunzianti,
come avveniva nella prassi romana, non dovevano richiedere la
loro ricompensa per la loro denuncia. Gregorio di Nissa, nel suo
panegirico, scrive che i cristiani sottoponevano al vescovo le
proprie dispute, descrivendone il modo di procedere: era un arbitrato
che comportava consigli a riconciliarsi, a mettersi d’accordo,
a conservare la pace. Questo doveva essere la prassi non solo
nel terzo secolo, ma anche nel quarto. Gregorio conclude le sue
prescrizioni con un’affermazione di grande sensibilità
spirituale: chi osserva i comandamenti, lo deve fare senza cupidigia,
senza richiedere ricompense, pagamento, premio o altro che possa
avere il significato di un riconoscimento umano. Ma la sua esortazione
non ha solo carattere spirituale: vuole evitare sia la caccia
a presunti colpevoli per scopo di guadagno e sia la delazione
per una ricompensa.
Conclusione.
La Epistola fa supporre una comunità cristiana estesa e
non ancora ben organizzata, che vive nei centri urbani, dove risiede
il vescovo, ma anche cristiani sparsi nei villaggi, dove bisognava
inviare degli emissari per verificare la condotta dei cristiani.
La presenza di piccole comunità cristiane in un vasto territorio
porta allo sviluppo del corepiscopato, istituzione caratteristica
della Cappadocia. Infatti due vescovi presenti al concilio di
Neocesarea erano corepiscopi, mentre a Nicea saranno elevati alla
condizione di vescovi. La gravità della situazione creatasi
con le invasioni barbariche e le razzie, la mancanza di un’esperienza
precedente in simili casi, richiedevano anche che certe decisioni
si prendessero in un’assemblea di vescovi. Per questo la
posizione di Gregorio è decisa e prudente con il coinvolgimento
di altri responsabili ecclesiali. Alla fine del canone sette afferma
che le sue disposizioni hanno un carattere provvisorio, perché
la ecclesia riunita deve prendere le decisioni sui colpevoli.
La comunità di Gregorio accetta la remissione dei peccati,
non è rigorista più di tanto. Ammette una diversità
di colpe e quindi una diversità di pene, pene esclusivamente
spirituali, che si riducono alla esclusione totale o parziale
dall’assemblea liturgica. Non si dice nulla se queste persone,
in casi particolari, per esempio in occasione di pericolo di morte,
potranno essere riammesse pienamente all’eucarestia oppure
si tratti solo di una esclusione temporanea in situazione penitenziale.
L’autore della lettera sembra ignorare totalmente le autorità
civili, che nel testo brillano per la loro assenza. Sembra che
la chiesa stia colmando un vuoto, anche se è solo occasionale
in situazione di emergenza. Non sembra però che il testo
dia luogo a queste considerazioni, perché il problema di
Gregorio e degli altri vescovi è all’interno delle
comunità cristiane e non della crisi della società
in quanto tale o delle autorità cittadine. Essi erano chiamati
a risolvere casi di etica cristiana e di coscienza e le loro responsabilità
erano soprattutto per il benessere spirituale dei fedeli. Per
questo Gregorio motiva le sue soluzioni in base alla Scrittura
e non secondo i principi del diritto romano. Le sue soluzioni
sono deduzioni da espressioni bibliche e non opinioni personali.
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