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LA SOLIDARIETA': FORME ED ORGANIZZAZIONE A ROMA
(secoli IV-V)
by Angelo Di Berardino
I) Cittadini e poveri nella Roma del IV secolo.
Ogni discorso e ricerca sulla carità e la solidarietà
cristiane a Roma nel IV e V secolo rimandano alla situazione sociale,
politica e religiosa della città. A. de Tocqueville, nel
secolo scorso, dopo un viaggio nella ricca Inghilterra e nelle
nazioni povere di Spagna e Portogallo, constatava che presso i
popoli più civilizzati la mancanza di una moltitudine di
cose causa la miseria, mentre nello stato selvaggio la povertà
non consiste che nel non trovare di che mangiare. Cioè
nei paesi più civili "i bisogni aumentano e si diversificano
all'infinito. L'occasione di trovarsi esposti a qualcuno di questi
diviene ogni giorno più frequente" ( ). Questi criteri
interpretativi si possono applicare, a mio parere, anche per il
Tardoantico, al rapporto tra la grande città e le cittadine
dell'Impero romano, ed ancor più in relazione con le campagne.
Qui qualcosa da mangiare si trovava o si poteva rimediare, non
fosse altro che verdure, nella "megalopoli" di Roma
invece diventava molto problematico, per tante persone, soddisfare
bisogni elementari di sussistenza. Inoltre la percentuale del
numero dei poveri in senso moderno aumentava in relazione al numero
degli abitanti.
Il concetto di povero e di povertà è relativo rispetto
alle diverse società; chi viene considerato povero in un
certo tipo di società, in altra può avere una denominazione
diversa e godere di differente stato sociale. Così il termine
latino pauper e simili hanno un significato diverso dal nostro
ed uno spettro più ampio di significati, anche se esso
principalmente indicava chi non apparteneva agli ordines dominanti
( ) e non un vero bisognoso; i veri poveri invece erano gli egentes
che risiedevano anche nella zona del Vaticano o affollavano i
ponti e le strade e le piazze di Roma ( ). Infatti l'Ambrosiaster,
probabilmente scrittore romano del IV secolo, dice che i pauperes...
qui publice egeni sunt (4 ).
Roma, una città enorme per i gusti antichi, ( ), aveva
nel IV secolo una massa sterminata di gente, che veniva assistita
dall'Impero; nel 367 c'erano 317.000 persone che ricevevano la
distribuzione della carne porcina ( ); dopo il sacco di Alarico,
nel 419, il numero scende a 120.000 (cfr. CTh 14,4,10) e risale
a 141.120 nel 452 ( ). Gli aiuti pubblici non erano diretti ai
poveri, in quanto poveri, ma ai cittadini residenti in città,
cives domo Roma, cioè originari della città(Ruggini
o.c. 161; Le Carré passim 1030; 1032), poiché le
distribuzioni pubbliche non avevano funzione caritativa, ma erano
un privilegio civico e politico (Ruggini, Spazi p. 161; Le Carré
1034), e come dice Simmaco: "prerogativa antica di sicurezza
del popolo romano" (Relat. 9,2 dell'estate del 384). Anche
le due leggi del Codice Teodosiano (CTh 11,27,1 e 2 di Costantino
del 315 per l'Italia e del 322 per i provinciales), che parlano
di genitori poveri con figli, non hanno lo scopo di aiutare genitori
poveri, ma per evitare l'infanticidio e la esposizione dei bambini,
e quindi avevano carattere demografico. Una altra forma dell'evergetismo
pagano, sorta nel primo secolo, era costituita dalle fondazioni
alimentari in favore di ragazzi mediante l'interesse da prestito
fatto a proprietari di terre, il cui ricavato veniva versato nella
cassa alimentare amministrata dalle città o da altro personale
(8 ).
Le frumentationes e le varie distribuzioni, senza possibilità
di cumulo, (Le Carré 1031) erano riservate ai cittadini
maschi maggiorenni, aventi i diritti civili, senza preoccupazioni
umanitarie o sociali. Gli infames, cioè le persone colpite
da infamia, erano esclusi; ed essi nel quarto secolo erano molti
e non godevano pienamente dei diritti civili. Il controllo degli
aventi diritto avveniva mediante una tessera riservata ad un numero
chiuso di persone, per cui i richiedenti venivano tirati a sorte
per essere inclusi nella lista ( ). A Roma il prefetto dell'Urbe
era incaricato delle assegnazioni (Cod. Theod. 14,17,14) ed era
il più esposto alle ire popolari in caso di scarsità
di cibo. Anzi, nel quarto secolo, quando si prevedevano difficoltà
di approvvigionamento alimentare, il popolo richiedeva l'espulsione
dalla città di quelle persone non cives domo Roma ( ),
anche se erano personaggi molto importanti, per paura che il cibo
non fosse sufficiente. Tuttavia in simili circostanze i personaggi
dello spettacolo, anche se secondo il diritto erano infames, non
venivano espulsi per esigenze di ordine pubblico (Cfr. Ammiano
14,6,14 e 18-19) e per conservare il divertimento (laetitia) pubblico.
Ruggini spazi p. 174 n.56) Ambrogio narra il caso di un prefetto
della città, in occasione di una di queste carestie (forse
quella del 376 quando fu prefetto il cristiano Aradius Rufinus),
il quale convinse i cittadini romani più importanti a non
compiere un simile gesto di espulsione ma a contribuire all'acquisto
di cibo per loro ( ). Inoltre le distribuzioni annonarie non esistevano
dappertutto, ma solo in alcune città e non avvenivano allo
stesso modo ( ). Nelle grandi città, specialmente Roma,
che in realtà era l'unica grande città, moltissime
persone, che altrove vivevano della terra e sulla terra, si dedicavano
a soddisfare bisogni non essenziali (i numerosi spettacoli); e
molte persone, senza lavorare in modo produttivo, vivevano degli
aiuti e contributi imperiali. Esisteva pertanto una enorme massa
non produttiva: fenomeno che non avveniva in piccole città.
Nella città di Roma, nel quarto secolo, tutte le spese
per ogni forma di distribuzione alimentare come pure gli oneri
per gli spettacoli e le varie cerimonie dalla casse imperiali
furono trasferite alle famiglie aristocratiche romane, allorché
un loro membro rivestiva una magistratura ( ). Erano le tradizionali
liberalitates, pur teoricamente libere, in pratica rese obbligatorie.
L'organizzazione di vari tipi di spettacoli, gratuiti per il popolo,
ma di enorme spesa anche per il ricco cittadino, era criticata
dai predicatori cristiani, anche se talvolta erano proprio dei
cristiani, con cariche pubbliche, ad offrirli gratuitamente al
popolo. Tra le tante voci, citiamo quella di Ambrogio: "E'
prodigalità consumare le proprie sostanze per conquistare
il favore del popolo, come fanno coloro che dilapidano i loro
beni nei giochi del circo o anche negli spettacoli teatrali e
gladiatori o anche in cacce alle fiere, per superare la fama di
chi li ha preceduti" ( ). Lattanzio stabilisce un contrasto
tra la liberalitas pagana e le forme caritative cristiane (Div.
Inst. 6,11). Quelle stesse persone, osserva il Crisostomo, che
non danno ai poveri, spendono invece enormi somme di denaro per
le liberalitates pubbliche, da dove si ricavava il prestigio politico
e sociale (15 ).
Un'altra forma di aiuto alle persone più deboli era il
sistema del patronus e dei clientes ancora vigente nel quarto
secolo ( ). Essendo le distribuzioni annonarie un privilegio delle
classi tradizionali di persone, le autorità civili iniziano
una "politica di espulsione dei mendicanti, dei senza lavoro,
degli stranieri fuori dalle città orientali ed occidentali.
La città respinge verso le campagne la povertà che
essa stessa aveva generato" ( ). Ma la povertà conosciuta
da noi è precisamente quella urbana, mentre ignoriamo quella
delle campagne nella Tardoantichità. Pietri, Pauvres p.842s
Tuttavia la città, allora come oggi, esercitava un richiamo
ed un'attrazione: l'indigente sperava che la città, perché
era molta affollata, offriva più speranza ed egli poteva
ricevere un qualche aiuto, ma soprattutto riceveva la consolazione
della condivisione dell'indigenza e della malattia.
Nel 382 Graziano invia una legge a Severo, prefetto di Roma,
secondo la quale tutte le persone valide, sia di stato servile
che libero, se in condizione fisica buona, dovevano essere tolte
dalla situazione di mendicità dalla città e assoggettate
o ad un padrone oppure al colonato. Restavano però liberi
per mendicare tutti quegli individui inabili o malati, ai quali
nessuna autorità pubblica pensava ( ). Per l'attuazione
della legge era necessaria però la richiesta di un delatore.
La legge riconosce esplicitamente una connessione tra malattia
e povertà; il lavoratore salariato e a giornata, se diventava
inabile, non potendo più lavorare, non aveva altre risorse
e non gli restava che la mendicità; e il povero era più
facilmente vittima della malattia. cfr. Patalagean*, Pauvreté
p. 101 e in Vera, La società 57 La misura coercitiva non
è nuova, in quanto Lattanzio riferisce che Galerio aveva
adottato una maniera forte di espulsione dei mendicanti dalle
città facendoli perire ( ); inoltre la misura non doveva
colpire molto la sensibilità comune perché delle
città greche punivano con la morte la mendicità
( ). Il concetto di invalidità fisica era diverso rispetto
ad oggi; l'invalido era chi non poteva realmente compiere alcun
lavoro, anche minimo. La legge di Graziano è molto discussa;
essa fu emanata probabilmente, come era prassi, su richiesta del
prefetto Severo, che era cristiano. Era una misura di ordine pubblico
per controllare l'afflusso di mendicanti a Roma? Oppure poteva
rispondere ad esigenze di non creare concorrenza con i veri bisognosi
e privare quest'ultimi delle elemosine abituali fatte dai cristiani?
In questo caso potrebbe rispondere alle avvertenze di cristiani,
che insegnavano un discernimento nel fare l'elemosina ( ). Certamente
la presenza di molti mendicanti a Roma non era una minaccia, in
caso di scarsità di rifornimenti alimentari, per i cittadini
propriamente romani, in quanto i mendicanti non avevano diritto
alle distribuzioni annonarie, se non erano cives domo Roma, le
quali resteranno sempre di carattere civico e non assumeranno
mai carattere caritativo, come è l'assistenza cristiana
rivolta possibilmente a tutti.
Pertanto il povero, nel senso di indigente, è respinto
dalla società romana oppure è soltanto tollerato,
come si esprime un graffito pompeiano: "Odio i poveri. Se
qualcuno vuole qualcosa per niente, è pazzo. Deve pagarla"
(CIL 4,9839b); e Plauto scrive: "fa male chi dà da
mangiare ad un povero: infatti quello che gli dà va perduto
e gli prolunga la vita per la sua infelicità" (Trinummus
II,2,58ss). Tuttavia non bisogna generalizzare; v'erano persone
compassionevoli, come un certo C. Ateilius Euhodus che fa scrivere
sul suo epitaffio a Roma di essere un amans pauperis ( ). La morale
stoica e l'insegnamento cristiano diffondono l'idea del soccorso
ai poveri, ma non animano le istituzioni civiche tradizionali,
che restano nell'impero cristiano, come le varie liberalitates,
con la loro caratteristica tradizionale di privilegio civico,
mentre quotidie pauper occiditur (Ambrogio, De Nabuthae 1). La
nuova sensibilità morale resta estranea alle istituzioni
pubbliche. Era diffusa la tendenza, tra la classi più alte,
a identificare la nobiltà dei natali con la nobiltà
d'animo, con la conseguenza di considerare il povero come potenziale
criminale o almeno di una moralità più bassa. Tradizionalmente
la povertà è una vergogna, e il povero è
miserevole, anche moralmente; essa assume una coloritura etica.
Il cristiano Minucio Felice ribatte che: "la povertà
non è una vergogna, ma una gloria" (Octavius 36).
Con il cristianesimo la povertà si associa frequentemente
con la santità: il santo è anche povero. cfr. De
Boer, p. 168 "L'impermeabilità dell'istituzione annonaria
alle nuove preoccupazioni morali non meraviglierà pertanto
più di tanto che la sopravvivenza dei giochi di anfiteatro
organizzati da magistrati cristiani durante tutto il quinto secolo"
(Le Carré p. 1100; cfr. Ville, Les jeux, MEFRA 1960,273-335).
L'ampio e diffuso evergetismo imperiale crea oziosità
e lusso, cose contrarie all'etica del lavoro. Roma è una
città di gaudenti e fannulloni, che, per ragione di decoro,
gli imperatori e i papi hanno alimentato. Pag. 614ss (Lane Fox?
P. Vayne, Il pane?): gli antichi non avevano l'etica del lavoro,
del mestiere, del guadagnarsi da vivere. Evergetismo e carità:
P. Veyne, Il pane...; L. Cracco Ruggini, La città imperiale
254. Un acuto studioso del problema, A. Giardina, osserva in proposito
che "L'evergeta dona per marcare la sua distinzione sociale,
per patriottismo, per senso civico; il suo gesto si rivolge alla
realtà di questo mondo. Il donatore cristiano mette in
atto la sua carità per acquisire meriti presso il Signore;
la sua generosità guarda a un mondo diverso, che non è
quello reale. L'evergeta si indirizza al popolo come insieme dei
cittadini, il donatore cristiano ai 'poveri', intesi come categoria
sociale e morale, non civica" ( ). Somiglianze con l'evergetismo
pagano: Ruggini, Spazi 167ss: Ma anche questo tradizionale modo
della ricerca della gloria e del prestigio sociale contamina molti
vescovi cristiani; e di fatti essi vengono ricordati più
per le costruzioni che per le opere assistenziali. Si rendeva
ben conto l'anonimo autore dell'Opus imperfectum in Math., il
quale critica aspramente il clero che si dedica troppo ad attività
edificatorie nel costruire martyria, adornare le chiese, dicendo
di farlo per la gloria di Dio; l'attività edificatoria,
per lui, è un bene se i vescovi si preoccupano anche dei
poveri, mentre è riprovevole invece se li trascurano. Tuttavia,
osserva che in realtà essi cercano la gloria umana: quis
tam insensatus est, ut non intelligat quia non ad gloriam Dei
faciunt aedificia illa, sed propter aestimationem humanam? (PG
56,885). Il suo consiglio è molto evangelico e presuppone
la nuova antropologia cristiana: Vis domum Dei aedificare? Da
fidelibus pauperibus unde vivant, et aedificasti rationabilem
domum Dei. In aedificiis enim homines habitant, Deus autem in
hominibus sanctis. Quales ergo illi sunt, qui homines exspoliant,
et aedificia martyrum faciunt? (PG 56,886). Agostino, come dice
Possidio, "non ebbe mai la smania di nuove costruzioni...
non proibiva però a chi lo volesse di costruire, purché
con moderazione" (Vita Aug. 24,13). Ad Edessa nella prima
metà del V secolo si realizza concretamente la preoccupazione
per gli stranieri, i poveri e bisognosi di ogni genere. La Vita
di Alessio (Leggenda dell'uomo di Dio) ( ), una apologia del vescovo
Rabbula, e la Vita di Rabbula delineano quale deve essere la figura
del vescovo, che invece di dedicarsi a costruzioni deve impegnarsi
a soccorrere gli stranieri e i bisognosi ( ). Rabbula precisamente
risponde a questi requisiti e la sua carità si estende
anche alle altre città. Per esempio la Vita di Rabbula
non parla della molteplice attività del vescovo, ma loda
soltanto la sua vita ascetica e la sua attività caritativa
verso orfani, vedove, poveri ed ammalati. A tale scopo costruisce
anche un ospedale. Anche uno dei canoni ecclesiastici di Rabbula
prescrive che i chierici non dovevano possedere più del
necessario, ma lo dovevano distribuire ai poveri ( 26).
II Assistenza e solidarietà cristiane.
Quanti erano i poveri a Roma nel quarto secolo? E quanti poveri
assisteva la chiesa romana? Non possiamo rispondere a nessuna
di queste domande, perché ogni studio quantitativo ci sfugge,
in quanto le basi di ricerca sono troppo incerte. Giovanni Crisostomo,
che scrive per il periodo che qui ci interessa, parla della situazione
di Antiochia. La sua descrizione è famosa, perché
offre dei dati e delle considerazioni. "Ritengo che le persone
ricche siano la decima parte degli abitanti di questa città,
e che i poveri siano un'altra decima parte, mentre il resto costituisce
la classe media... Se il numero dei ricchissimi è piccolo,
quello delle persone agiate, che vengono dopo di loro, è
grande; e i poveri, a loro volta, sono un numero limitato rispetto
a costoro. Eppure, benché le persone in grado di nutrire
i poveri siano tante, molti vanno a dormire affamati... Se i ricchi
e gli agiati si dividessero il compito di aiutare coloro che necessitano
di cibo e vestiario... Considerate quante vedove e quante vergini
la Chiesa aiuta e sostenta ogni giorno, pur avendo un reddito
pari a quello di uno dei meno agiati in questa città, non
dei più ricchi. La sua lista raggiunge la cifra di tremila
tra vergini e vedove. La Chiesa aiuta inoltre quanti si trovano
in carcere, gli ammalati negli ospedali, i convalescenti, i pellegrini,
i mutilati... e tutti quanti ogni giorno vengono qui a chiedere
aiuto" ( ). Il Crisostomo non precisa il numero dei bisognosi,
quelli che sono in qualche modo emarginati e vengono soccorsi
dalla chiesa; tuttavia la loro povertà è proprio
estrema, perché necessitano del minimo necessario per sopravvivere,
cioè solo qualcosa da mangiare e un qualche indumento.
Ritorna quel concetto di povertà, differente dal nostro,
di cui già si discorreva. Non so se la situazione di Antiochia
ci possa essere utile per capire quella romana, tuttavia può
essere un termine di paragone.
Una domanda a cui invece è più facile dare una
risposta riguarda lo spettro dell'assistenza cristiana. Quali
erano le forme della solidarietà cristiana nella società
romana del quarto e quinto secolo fin qui descritta? Esse erano
tante, che si esplicavano in vario modo; alcune tipiche e applicabili
solo in quella struttura di società e non avvertite più
in seguito con la stessa forza e intensità. Che si tratta
di solidarietà alle persone in qualsiasi necessità,
si può considerare i destinatari della carità della
chiesa milanese al tempo di Ambrogio. Si veniva incontro a tutte
le varie necessità ( ); anche aiutare economicamente le
ragazze bisognose a sposarsi ( ), o all'educazione di orfani e
abbandonati ( ); a chi si trovava in ristrettezze economiche (
); ai forestieri ( ). Mancando un sistema bancario, la chiesa
si impegnava a custodire i depositi delle vedove e degli orfani,
i quali venivano affidati ad essa contro i soprusi dei potenti
( ) e dello stesso imperatore ( ). Una categoria particolare era
costituita dai lebbrosi, che venivano allontanati sia dalle famiglie
che dalle città: "scacciati da ogni parte formano
una classe a se stante" ( ); allontanati dalle fonti di acqua,
si raggruppavano e soggiornavano lungo le grandi strade. Qualcuno
si limita ad offrire delle elemosine, tuttavia ci sono dei cristiani
- monaci? - che dedicano la loro vita alla loro assistenza ( ).
Le forme di solidarietà cristiana vengono messe in rilievo
anche dai pagani, che citeremo più avanti, come Luciano
di Samosata, Giuliano imperatore ed altri come Nettario. Anzi
Giuliano, che conosce bene queste forme caritative intende stabilirle
anche nel mondo pagano: questo gesto è indice che esse
fossero tipiche dei cristiani (37 ).
In particolare enumero alcune delle opere di solidarietà:
1) L'aiuto ai fratelli nella fede incarcerati o condannati ai
vari lavori forzati per i primi secoli, poi nel nostro periodo
ai carcerati in generale. 2) Il riscatto delle prostitute; 3)
Riscatto dei prigionieri; 4) Soccorso alle vittime dell'usura,
e specialmente a chi era oppresso da debiti. 5) Assicurare una
sepoltura a tutti; 6) Cura delle vedove e degli orfani; l'ospitalità
per i forestieri. Erma considera beati quei vescovi ospitali (
). Tra le finalità della raccolta domenicale Giustino,
che scrive in Roma, dice che c'era anche quella di accogliere:
"gli ospiti che venivano da altri paesi" (1Apol 67).
7) Cura dei malati.
Per ragione di spazio e di tempo, non è possibile soffermarsi
sulle singole "opere di misericordia", per cui conviene
prestare attenzione in speciale modo a qualcuna di esse, tra le
meglio visibili per noi. Tuttavia era tradizione della chiesa
romana non limitare la sua azione caritativa nell'ambito del suo
territorio e all'assistenza di cristiani romani condannati altrove.
Roma realizzava quanto Ignazio di Antiochia, agli inizi del secondo
secolo, diceva di essa, di "presiedere alla carità".
Dionigi di Corinto scrive a papa Sotero (166-175), sulla tradizionale
solidarietà romana: "fin dagli inizi voi avete la
bella consuetudine di beneficare tutti i fratelli, di mandare
soccorsi a numerose chiese costituite nelle singole città.
In tal modo sollevate i bisognosi, mediante appunto codesti aiuti,
che già dai primissimi tempi continuate a inviare e somministrate
il necessario ai fratelli che stentano nelle miniere. Siete romani
e custodite gelosamente le tradizioni dei vostri avi, i romani:
e Sotero, il carissimo vostro vescovo, non solamente le mantenne,
ma persino le sviluppò soccorrendo con larghezza i santi
nei loro bisogni" (presso Eusebio, Hist. Ecc. 4,23,10*14*).
Queste affermazioni sulla grande sollecitudine romana sono confermate
da altre testimonianze per altre province dell'Impero romano:
per esempio, Dionigi di Alessandria loda papa Stefano (254-257)
per inviare "regolarmente dei soccorsi" alle chiese
della Siria e dell'Arabia (Eusebio, Hist. Ecc. 7,5,2); oppure,
nello stesso periodo, in Cappadocia (cfr. Basilio, Ep. 70).
1) L'assistenza ai carcerati: un modo di solidarietà
tipicamente cristiano e nuovo nella sensibilità comune.
( ). Il giurista Ulpiano, a proposito del carcere, scrive, che
esso "serve per detenere gli uomini non per punirli"
(Digesto 48,19,8,9). In altre parole la carcerazione non era concepita
come esecuzione di una condanna emessa da un giudice: non si condannava
mai al carcere, perché il suo scopo era la custodia "cautelare"
in attesa del giudizio, emesso in tribunale dal governatore o
dall'imperatore stesso. Il carcere poteva avere alcune stanze,
collocate una dopo l'altra senza finestre e senza luce; oppure
scavate in profondità a diversi livelli, con scarsità
d'aria e di igiene, con una piccola comunicazione per risalire,
da dove era impossibile fuggire. Il buio delle carceri era proverbiale
e anche s. Agostino lo usa come paragone (Sermone 211,2). La legge
normalmente non regolava la detenzione, che restava a completo
arbitrio dell'autorità; poteva essere inflitta in qualsiasi
momento ed essere tolta in ogni momento o continuata all'infinito,
anche se nella pratica è qualcosa di transitorio. Agostino
accenna a carcerieri che avevano i detenuti nella propria casa:
"pensate ai custodi dei carcerati. Anche se li tengono chiusi
nelle loro case, certo quelli che si trovano sotto sorveglianza
sono in carcere... abitano gli e gli altri in una stessa stanza,
per il carceriere è la casa, per il prigioniero il carcere"
(Com. in Psalm. 141,17).
La detenzione poteva comportare, sempre a discrezione dell'autorità,
l'uso delle catene per maggiore sicurezza. Il trattamento dell'imprigionato
dipendeva dalle possibilità economiche dei detenuti e dalla
loro importanza sociale. Parenti e amici pagavano i custodi o
i soldati per visitarli e aiutarli. Nei testi dei martiri vediamo
che i cristiani davano soldi ai custodi, a volte somme consistenti,
per poter portare conforto a chi era imprigionato per la fede.
Anzi era un dovere di tutta la comunità soccorrere, non
solo materialmente, ma anche spiritualmente i fratelli, che per
la loro fede, erano in carcere. Dal contesto sociale e istituzionale
nasce l'esortazione cristiana a visitare i carcerati, in quanto
spesso, quelli che non erano ricchi, erano abbandonati a se stessi
e costretti a morire di stenti. Visitare i carcerati diventa un
dovere cristiano, specialmente di chi è in autorità
( ). Ambrogio scrive: "ti sia presente anche chi è
rinchiuso in prigione" ( ). Nel 419 Onorio concede ai vescovi
il permesso di recarsi nelle carceri ope miserationis per medicare
gli ammalati, nutrire i poveri, consolare gli insontes (Sirmondiana
13).
2) Un altro impegno di solidarietà cristiana riguardava
le donne costrette alla prostituzione. Ambrogio annovera le prostitute
tra i poveri, cioè tra quelle persone più abbandonate
socialmente (De officiis 2,15,70) e pertanto più bisognose
della solidarietà cristiana. Anche l'imperatore concede
ai vescovi di liberare le prostitute dai lenones (CTh 15,8,2)
nel 428; già nel 343 Costanzo aveva concesso che le donne
divenute cristiane non potevano essere adibite alla prostituzione:
ma un cristiano poteva riscattarle pagando il giusto prezzo.
3) Il riscatto dei prigionieri appartiene all'antica tradizione
cristiana di aiuto e di solidarietà ( ), poiché
in momenti di invasioni venivano presi i civili, che costituivano
una ricchezza per i rapitori. A Roma, già nel secondo secolo
Erma considera il riscatto "dei servi di Dio" un'opera
di misericordia (Comand. 8,10). Cipriano invia centomila sesterzi
per aiutare i cristiani della Numidia per il riscatto dei prigionieri
(Ep. 62,4) e si dice disposto a dare di più per la generosità
dei cristiani di Cartagine. Lattanzio considera il riscatto dei
prigionieri un'azione di alta umanità (Div. Inst. 6,12,39;
Epitome 65). Vediamo come questa opera caritativa viene messa
in pratica, dopo il disastro di Adrianopoli, per esempio a Milano,
da parte di Ambrogio, che vende per l'occasione anche i vasi sacri;
non solo ma egli offre un'ampia giustificazione della sua opera
caritativa ( ). Dovevano essere forti le critiche contro questa
destinazione dei vasi sacri. Anche Agostino fa altrettanto in
Africa ( ). La chiesa di Cappadocia ricordava ancora nel quarto
secolo gli aiuti inviati dalla chiesa romana per il riscatto dei
prigionieri nell'invasione gotica della metà del terzo
secolo ( ). Ancora alla fine del sesto secolo Gregorio Magno fa
riferimento alla necessità del riscatto dei prigionieri
in occasione della invasione longobarda ( ). Interessante e significativo
che le autorità imperiali demandano ai sacerdoti cristiani,
come obbligo, di prestare attenzione al riscatto dei prigionieri,
con una legge del 408 (CTh 6,7,2). Ed Ambrogio può rinfacciare
a Simmaco che i templi pagani non hanno preoccupazioni di carità:
"Ci dicano quanti prigionieri hanno riscattato i templi,
quante volte hanno somministrato alimenti ai poveri, quanti esuli
hanno sovvenzionato con sussidi" (Ep. 18: PL 16,977).
4) Soccorso alle vittime dell'usura, e specialmente a chi era
oppresso da debiti. I Padri con forza e frequentemente condannano
l'usura, che allora si intendeva qualsiasi prestito con interesse.
Tra le sue attività caritative Melania liberava i detenuti
per debiti [SCh 90, p. 144). Lattanzio, Div. Inst. 6,18,7ss; Pietri,
Pauvres p. 841s.Ambrogio (De off. 2,16,76) ne parla esplicitamente,
pur costatando che moltissimi fingono di avere debiti. In particolare
erano pesanti i debiti con il fisco, che era implacabile, con
l'applicazione delle leggi e le loro conseguenze: si arrivava
persino alla prigione o alla presa in pegno dei figli. Si conosce
il caso di una donna che fugge nel deserto, poiché suo
marito è in prigione per debiti e i tre figli erano stati
venduti all'asta (Hist. monach. in Egypto 14,5-7) (47 ).
5) Procurare un sepoltura ai defunti. L'uomo antico si preoccupava
molto di avere una sepoltura, il più decente possibile,
senza alcun paragone con l'uomo di oggi. Spesso da vivo ci si
preoccupava di costruire la propria tomba, come ancora avviene
in talune parti d'Italia; così anche i cristiani hanno
considerato un dovere impellente di carità seppellire i
morti poveri. Scrive Lattanzio: Ultimum illud et maximum pietatis
officium est peregrinorum et pauperum sepultura ( ). Già
a Gerusalemme c'era un impegno comunitario per la sepoltura degli
stranieri. Aristide, nel secondo secolo, scrive che: "quando
uno dei loro poveri lascia questo mondo, ed uno di loro lo vede,
allora provvede alla sua sepoltura (Apol. 15,7 nel testo siriaco).
Tertulliano ci parla della "cassa comune" ( ) che tra
le altre opere assistenziali serviva anche per egenis humandis
(Apologetico 39,6). La Tradizione Apostolica, degli inizi del
III secolo, attribuita ad Ippolito, conferma questa organizzazione
e queste finalità. Se essa è stata scritta a Roma
ci presenta l'organizzazione romana comunitaria per la sepoltura.
Ippolito, quello certamente romano, ci presenta il diacono Callisto
incaricato a Roma del koimeterion ("dormitorio") (Phislophoum.
9,12,14). Anche Alessandria aveva tutta una organizzazione per
questo servizio ( ). La cura della sepoltura viene affidata ai
fossores, che nel quarto secolo ottengono la dispensa dalla collatio
lustralis. Cfr. Pietri, Roma 659ss; 131. Anche l'imperatore Giuliano
vede come caratteristica dei cristiani "la cura di seppellire
i morti" (Ep. 84,429D Caltabiano). Ambrogio, insieme al riscatto
dei prigionieri (De off. 2,15,70ss), considera la sepoltura un'opera
così importante per cui è lecito e doveroso vendere
i vasi sacri. Scrive: "Nessuno può lamentarsi perché
sono stati riscattati dei prigionieri; nessuno può lanciare
accuse perché sono stati allargati gli spazi per seppellire
le spoglie dei fedeli; nessuno può dolersi perché
i cristiani defunti riposano in una tomba. In questi tre casi
è lecito spezzare, fondere, vendere i vasi della Chiesa,
anche se già consacrati" (De off. 2,28,142). La cura
per i defunti, a Roma così sviluppata e documentata, è
una testimonianza ancora molto visibile, ed altri ne parleranno
in questa sede.
6) Cura delle vedove e degli orfani. In ogni società
priva di forme assistenziali, anche in quelle preindustriali moderne,
gli orfani, le vedove e i poveri erano le persone più bisognose
e più deboli. Non esisteva nell'impero romano, e quindi
neanche a Roma, alcuna forma assistenziale per loro. Gli orfani
potevano essere ridotti in schiavitù oppure sfruttati per
la mendicità. Le vedove dovevano provvedere a se stesse
per guadagnarsi da vivere, come scrive Girolamo: "quelle
[vedove] che sono prive di qualunque aiuto da parte dei congiunti,
quelle che non hanno la possibilità di lavorare con le
proprie mani, quelle che la povertà rende deboli e che
sono logorate dall'età... Questo ci permette di capire
che le vedove di giovane età - ad eccezione di quelle che
sono scusate dal loro stato di salute - sono obbligate o a lavorare
personalmente o a rimanere a carico dei figli e dei parenti...
L'Apostolo obbliga le vedove povere - quelle sole, beninteso,
che sono ancora giovani e non esauste per qualche malattia - a
lavorare con le proprie mani perché non siano di peso alla
chiesa" (Epist. 123,5) ( ). L'insistenza di Girolamo è
sul bisogno reale, le vedove veramente povere, e l'età
giusta. L'età tuttavia era secondaria rispetto alle necessità
delle vedove. Infatti se esse non avevano eredità o altri
beni personali e non erano in grado di svolgere qualche lavoro
utile, restavano prive dei mezzi più elementari per vivere.
Ma quante potevano disporre di mezzi sufficienti?. Conosciamo
meglio, anche se in maniera insufficiente, l'assistenza prestata
alle vedove cristiane da parte della chiesa. Nei testi cristiani
tuttavia, quando si tratta di aiuti assistenziali sistematici
e non casuali, queste tre categorie di persone spesso vengono
messe insieme, come scrive papa Gelasio: viduarum, pupillorum
atque pauperum stipendia (Ep. 10: PL 57,59). L'uso del termine
stipendium, e non elemosina o espressioni simili, rimanda all'esistenza
di liste specifiche di queste persone assistite: una matricula
pauperum ( ) ed una matricula viduarum ( ). I poveri vengono iscritti
in uno specifico registro, per indicare quelle persone che stabilmente
ricevevano sussidi, non gli avventizi o i mendicanti. L'esistenza
di un simile registro, per la chiesa romana, è attestata
già dalla metà del III secolo, al tempo di papa
Cornelio (251-253), in una lettera che scrive a Fabio di Antiochia
(Eusebio, HE 6,43,12).
Le vedove, iscritte in uno speciale registro, ricevevano degli
stipendia viduitatis ( ). La chiesa, osserva l'Ambrosiaster, un
autore romano, per norma non doveva prestare aiuto alle vedove
che avevano figli e nipoti; tuttavia a volte c'è l'impietas
di queste persone, ut anus despiciatur a suis, per cui si verifica
che fidelium viduae nunc multum gravant eccelsiam, a scapito di
altre persone bisognose ( ). Secondo la prassi venivano iscritte
nella lista le vedove non risposate, ma, dice lo stesso autore,
a volte anche quelle che si erano risposate due o tre volte e
persino persone indegne ( ). In realtà l'assistenza a volte
riguardava anche donne non anziane, prima dell'età richiesta
dei 60 anni, ma che tuttavia erano bisognose o malate (Girolamo,
Ep. 52,5; 123,5). Gli Statuta Ecclesiae antiqua affermano che
le viduae adulescentulae, quae corpore debiles sunt, sono sostentate
dal sumptu ecclesiae (can 36). Le condizioni normali richieste
pertanto erano quattro: l'età di sessant'anni; la privazione
di altre risorse; la mancanza di parenti, figli o nipoti; un solo
matrimonio. Tuttavia qualcuna di queste condizioni, come si è
visto, poteva facilmente mancare: la malattia, il disinteresse
dei parenti, od anche il fatto di essersi risposate. Spettava
ai responsabili valutare ogni singolo caso seguendo la pietà
e la commiserazione.
Qualche vedova considerava un onore, pur avendone diritto, non
aver ricevuto lo stipendium viduitatis, come quella Regina, il
nome della donna, restata vedova, non si era risposata e non era
iscritta nel registro all'età di 20 anni e morta all'età
di 80; il suo epitaffio riecheggiando s. Paolo dice: et ecclesia
numquam gravavit, unybara ( ); o come Dafnen, anch'essa aclesia
nihil gravavit. Regina, non risposata, aveva il diritto a ricevere
il sostentamento, ma ha preferito non gravare sulla comunità
trovando altri modi di vivere, probabilmente aiutata dalla sua
figlia, che le ha costruito la tomba. Le iscrizioni che indicano
vidua sono quelle iscritte?. Al tempo di Gregorio Magno la chiesa
romana assisteva 3000 donne, ma allora la città aveva molto
meno abitanti (58 ).
7) La cura degli ammalati ( ). Il pagano Nettario riconosce
che i cristiani si prendono cura degli ammalati: voi "vi
prendete cura degli afflitti, somministrate le medicine ai corpi
malati; insomma fate del tutto perché i sofferenti non
sentano a lungo i loro malanni" ( ). I cristiani insegnavano
che la compassione concreta era una virtù qualificante,
a differenza di una certa tradizione pagana che considerava la
pietà come un difetto del carattere ed andava combattuta
( ). Inoltre non esisteva una motivazione filosofica o religiosa
che sostenesse la cura dell'ammalato o del sofferente, anche se
parlavano di filantropia, come di una virtù ( ). Non essendoci
nessun tipo di assistenza medica, chi cadeva malato, se non aveva
altre risorse economiche, facilmente perdeva la sua fonte di sostentamento
e la possibilità di qualche cura. Le deformazioni fisiche
erano molte comuni; quando si voleva identificare qualche persona,
per esempio nei contratti, si menzionava un difetto fisico, specialmente
delle cicatrici. I cristiani invece presentavano Cristo come medico
e come il buon samaritano, ed ogni fedele doveva imitarlo, anche
in ragione di una ricompensa celeste. Per cui il malato acquistava
una posizione preferenziale e la dedizione alla sua cura diventava
segno di crescita spirituale. La Traditio Apostolica non solo
parla dell'aiuto da dare concretamente ai malati (cap. 24), ma
fa obbligo al vescovo di visitarli, perché "grande
è la gioia del malato quando si vede ricordato dal sommo
sacerdote" (cap. 34). Lattanzio afferma che aegros quoque
quibus defuerit qui adsistat, curandos fovendosque suscipere summe
humanitatis et magnae operationis est ( ). Questa pratica cristiana
viene messa all'opera, durante la pestilenza della metà
del III secolo, sia a Cartagine che ad Alessandria; ma possiamo
pensare che altrettanto si facesse anche a Roma. Nel quarto secolo
nascono le prime istituzioni private o comunitarie per accogliere
e curare gli ammalati, specialmente quelli più poveri;
anche a Roma, come si dirà più avanti. Lo scopo
è di solidarietà umana e spirituale, come dice Paolino
di Nola: "essi rafforzino le nostra fondamenta, noi aiutiamo
i corpi dei fratelli indigenti con l'abitazione" (Carm. 21,392-394).
III Forme di carità cristiana
Agli inizi del quinto secolo Roma è la sede di forti dibattiti
sulla ricchezza tra i cristiani e sulla loro distribuzione ai
poveri. Abbiamo testimonianze di questo dibattito soprattutto
nell'ambiente aristocratico. Anzi tutto negli anni 408-410 suscita
enorme risonanza la decisione della giovane coppia Piniano e Melania
la Giovane di vendere le loro vastissime proprietà sparse
in diverse provincie e dedicarsi alla vita ascetica. Incontrarono
molte difficoltà perché sovvertivano la società
aristocratica. Melania, figlia unica ed ereditaria, dovette aspettare
la morte del padre; e non avendo compiuto i 25 anni richiesti
per l'amministrazione (Melania aveva 20 anni, il marito Piniano
24), dovette chiedere la venia aetatis al prefetto ( ). Ma ci
sono altri casi simili ( ). Inoltre alla fine del quarto secolo
e agli inizi del quinto si diffonde un grande fervore a spogliarsi
dei propri beni e a darli ai poveri soprattutto a Roma. Nello
sfondo, sempre a Roma, si staglia una polemica contro le ricchezze
e i ricchi. Invero si incrociano e si intersecano diverse tendenze
dottrinali e pratiche. Sembra difficile presentare le varie posizioni
allo stato puro. La condanna assoluta delle ricchezze sembra riconnettersi
con il movimento pelagiano. L'eco di questo dibattito si vede
anche nella lettera che un certo Ilario scrive ad Agostino tra
il 414 e il 415, nella quale dice che "alcuni cristiani di
Siracusa asseriscono... che un ricco, il quale rimanga in possesso
di tutte le sue ricchezze, non può entrare nel regno di
Dio se non vende tutti i suoi beni, e non gli può giovare
a nulla, se per caso avrà osservato i comandamenti, facendo
uso delle stesse ricchezze" (Agostino, Ep. 156) ( ). Nel
luglio del 415 questa stessa accusa, tra le altre, viene rivolta
a Pelagio da due vescovi gallici Heros di Arles e Lazzaro di Aix,
di fronte ad Eulogio di Cesarea, in Palestina (DTC 12,690-693).
Infatti il concilio di Diospoli del dicembre del 415 condanna
la proposizione riguardante la necessità assoluta della
rinunzia ai beni ( ). La dottrina più articolata su questo
argomento viene esposta in una opera contemporanea, il De divitiis
( ), forse composta a Roma (cfr. 19,4: PLS 1,1415). L'idea guida,
fondata su Prov. 30,8, è che "la ricchezza consiste
nel possedere più del necessario; la povertà, nel
non avere quanto basta; la sufficienza... nel non possedere più
del necessario" (5,1). Le ricchezze non sono peccato, ma
provengono dal peccato e conducono al peccato, per cui è
praticamente impossibile al ricco essere perfetto cristiano. Anche
la famosissima propositio che le ricchezze aiutano le opera pietatis
et misericordiae (12,1: PLS 1,1400) viene contestata e ridicolizzata.
L'anonimo autore afferma che: "Togli di mezzo il ricco e
il povero non lo troverai più. Che nessuno possegga più
di quel che è necessario ed allora tutti avranno il necessario.
I pochi ricchi infatti sono la causa dei molti poveri" (12,2:
PLS 1,1401). Oltre l'influsso dell'insegnamento ascetico di Girolamo,
Pelagio e i suoi discepoli erano ben conosciuti a Roma negli ambienti
dell'aristocrazia femminile romana. Ora i libri dell'ambiente
pelagiano avevano sicuramente un ampio corso, almeno nell'ambiente
romano, o tra persone romane ma viventi altrove. Agostino riconosce
la loro diffusione: "gli scritti di quegli individui i quali
per acutezza d'ingegno ed eloquenza si fanno leggere da tante
persone" (Ep. 188,13). Nelle opere pelagiane ricorre frequentemente
l'esortazione alla povertà ( ), e quindi si crea quel retroterra
spirituale e morale, per cui spogliarsi delle ricchezze costituisce
un grande guadagno, per guadagnare le ricchezze del cielo.
Questo fervore ascetico incrementa le forme caritative cristiane,
specialmente a Roma, sia a livello individuale e sia a livello
comunitario con la donazione di beni alle chiesa.
A) Le forme private. Sono numerose le testimonianze, per Roma
per il quarto secolo, della carità individuale più
che di quella collettiva e comunitaria; ed esse riguardano soprattutto
le donne delle grandi famiglie romane. Diversi autori pagani menzionano
le donne cristiane dedite a sostenere sia la comunità che
i bisognosi. Lo storico Ammiano Marcellino constata la generosità
delle oblationes matronarum romane (27,3,14); come pure Zosimo
riconosce che Laeta aveva dilapidato generosamente le sue ricchezze
(Zosimo, Hist. Nova 5,39). Un autore pagano, Luciano di Samosata,
già nel secondo secolo, in La morte di Peregrino, anche
se solo per caricatura, metteva in risalto la grande solidarietà
tra i cristiani: "Il loro primo legislatore li ha persuasi
di essere fra di loro tutti fratelli" (cap. 13).
L'imperatore Giuliano rimprovera ai mariti l'eccessiva libertà,
in questo campo, concessa alle loro mogli: "Ora, ognuno di
voi permette alla propria moglie di portare via da casa qualsiasi
cosa per darla ai Galilei, e così, nutrendo i poveri a
spese vostre, esse suscitano negli indigenti - e sono, credo,
la maggioranza delle persone - una grande ammirazione per l'ateismo"
( ). Gli stessi pagani riconoscono come proprio dei cristiani
la loro opera caritativa. Il pagano Nettario, scrivendo ad Agostino,
dice: "Quanto affermo è dimostrato pure dalla natura
stessa delle vostre occupazioni, con cui assistete i poveri, vi
prendete cura degli afflitti, somministrate le medicine ai corpi
malati; insomma fate del tutto perché i sofferenti non
sentano a lungo i loro malanni" ( ). Melania, a Roma, per
crescere nell'ascesi ( ) visitava tutti gli ammalati senza eccezione
per curarli; accoglieva pellegrini, rifornendoli per il viaggio;
aiutava i poveri; liberava i prigionieri di ogni genere, i condannati
alle miniere, i detenuti per debiti [SCh 90, p. 144: miniere e
luoghi di prigionia non è nel testo latino]. Melania e
Piniano in una volta avevano riunito la somma di 45.000 solidi
per i poveri e i santi (Vita, 17). Paola si dimostra molto generosa:
"Nessun povero se ne tornò via da lei a mani vuote...
sapeva erogare con prudente saggezza" ( ). Tuttavia Paola
si mostra anche prudente, lasciando una parte dei suoi beni ai
figli ( ); Marcella, per non contrariare la madre Albina, lascia
una parte dei beni ai parenti (Girolamo Ep. 127,4). La storia
ci tramanda il nome di matrone generose, ma tralascia quelle invece
che sono vittime delle critiche di Girolamo (Ep. 22,32) ( ). Ecdicia,
ad insaputa del marito, viene rimproverata da Agostino, perché
aveva dato i suoi beni per i poveri (Agostino, Ep. 262,5) e persino
diseredato suo figlio, causando la ribellione del marito (162,8).
Tuttavia a Roma anche uomini praticavano generosamente quella
carità; Girolamo esalta Nebridio (Ep. 79, 2 e 5) e Pammachio
(66,5).
Le iscrizioni funerarie attestano la generosità delle
persone decedute: quelle pagane esaltano l'attività evergetica
del defunto; quelle cristiane invece testimoniano un cambio di
valori ed una sensibilità nuova lodando una vita dedicata
all'aiuto dei poveri ( ); un Iunius nel 341 si dichiara amator
pauperorum e la sua moglie amatrix pauperorum et operaria, cioè
veramente impegnata nell'assistenza ( ). Altri esempi Pietri p.
861s. Orbene è molto difficile valutare l'efficacia e l'ampiezza
della carità individuale nella Roma del quarto secolo,
ed era quella che quasi non ha lasciato tracce, specialmente quella
anonima. Siccome l'elemosina era vista come uno dei mezzi privilegiati
per ottenere il perdono dei propri peccati, essa doveva essere
molto più praticata di quanto le scarse fonti ci lasciano
intravedere. Conosciamo meglio la predicazione e l'esortazione
all'elemosina, ma non la risposta della comunità cristiana.
In tutte le città i poveri si affollavano vicino alle
porte delle chiese per mendicare ( ). Talvolta alcuni prendevano
i ragazzi, li sfiguravano per attirare maggiormente la compassione
e li mettevano a mendicare. A Roma negli atri delle basiliche
cristiane i poveri chiedevano l'elemosina, dove si dispiegava
maggiormente la carità privata ( ). La zona della basilica
di Pietro era uno di questi luoghi. Girolamo vi vede una nobilissima
matrona, accompagnata da eunuchi, la quale distribuisce personalmente
un nummus ad ogni povero per apparire più pia (Ep. 22,32).
Anche Pammachio, un altro ricco e nobile cristiano, continuando
l'antica tradizione dell'agape, aveva offerto verso il 396 nella
basilica di S. Pietro un banchetto a una grande moltitudine di
pauperes della città, in occasione della morte della moglie
Paolina ( ), distribuendo loro anche dei soldi. Nella lettera,
dove Paolino di Nola riferisce l'episodio, egli definisce i poveri
"i patroni delle nostre anime" (Ep. 13,11 e 14; 34,4)
( ). Inoltre Paolino mette questo episodio in contrasto con l'ostentazione
evergetica dei ricchi che impiegano il loro denaro per comprare
ed alimentare belve e gladiatori. C'è un contrasto stridente
tra la ricerca della gloria del pagano nell'offrire spettacoli
e il cristiano che invece si aspetta una remunerazione celeste
mediante il soccorso dei bisognosi, proprio quelle persone emarginate
dalle elargizioni civiche. Scrive Paolino: "Beato te (Pammachio),
che non sei intervenuto nel consesso di uomini siffatti e ottieni
la lode non sulla cattedra degli empi, bensì nella sede
dell'Apostolo e nell'assemblea della Chiesa, cioè nel teatro
di Cristo, dove gli spettatori delle gradinate non sono sediziosi,
ma benedicenti, e dove Dio stesso è spettatore. Tu dai
spettacoli per la Chiesa, non per l'arena dell'anfiteatro, aspirando
alla lode eterna, non alla gloria vana" (Paolino, Ep. 13,16).
Girolamo dice di Pammachio (Ep. 66,5): le porte della casa dove
prima si affollavano di turbae salutantium, nunc a miseris obsidentur.
B) Le forme collettive. Giustino martire, vissuto a Roma nel
secondo secolo, ci informa della colletta domenicale per opere
assistenziali. Dice che il presidente "stesso va ad aiutare
gli orfani, le vedove e coloro che sono bisognosi...: è
insomma il protettore di tutti coloro che sono nel bisogno"
( ). In questa opera i diaconi già svolgevano un ruolo
di aiuto al vescovo. Un altro testo, contemporaneo a Giustino,
critica i diaconi romani, che approfittavano del loro ufficio
assistenziale: "Quelli che hanno macchie sono i diaconi che
amministrarono male e derubano le vedove e gli orfani. Essi fecero
un loro profitto della diaconia, che presero ad amministrare"
(Erma, Pastore, sim. 9,26,2). Queste due testimonianze ci fanno
intravedere gli aspetti essenziali dell'organizzazione della carità
cristiana nella Roma antica: il primo responsabile è il
vescovo, che si serve dei diaconi. La Traditio Apostolica scrive
che: "il diacono viene ordinato non al sacerdozio, ma al
servizio del vescovo... amministra e segnala al vescovo ciò
che é necessario" (cap. 8; cfr. Costituzione Apostoliche
2,44; 8,41,47).
Il Liber Pontificalis dice che papa Fabiano (236-250) regiones
divisit diaconibus (1,148); la notizia trova conferma nel Cronografo
del 354 (MGH, Auct. ant. IX,1, p. 75); essa significa che le sette
regioni furono affidate a sette diaconi, probabilmente ogni diacono
aveva due regioni augustee, coadiuvati da sette suddiaconi. Anzi
sono questi che distribuivano l'assistenza ( ). I diaconi dovevano
raccoglie le offerte e provvedere all'assistenza locale. Ancora
più preziosa è la lettera di papa Cornelio (251-253),
che scrivendo a Fabio di Antiochia ( ) offre la prima statistica
della comunità romana, la quale assiste "più
di 1500 vedove e poveri". Il numero delle persone assistite
doveva essere molto, ma molto più alto nel quarto secolo.
Tale assistenza non era avventizia, ma un'organizzazione stabile
con personale specifico. Prudenzio ci presenta il diacono Lorenzo
intento, per la stessa epoca, a percorrere la città e dedito
all'assistenza ai poveri (Perist. 2,141-184). Di altro genere
la notizia riguardante Lorenzo, che "a chi gli chiedeva i
tesori della Chiesa promise di mostrarli. Il giorno seguente condusse
i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò
i poveri dicendo "Questi sono i tesori della Chiesa""
(Ambrogio, De off. 2,28,139). Papa Leone, parlando di Lorenzo
ne descrive l'ufficio: dispensatione ecclesiasticae substantiae
praeminebat (Serm. 85,2), forse per indicare che i diaconi svolgevano
una parte importante della funzione assistenziale della chiesa.
Il principale responsabile dell'assistenza pertanto era il vescovo,
che doveva avere la cura dei bisognosi e degli ammalati. Il can.
14 dei Canoni di Atanasio si dilunga sui doveri personali del
vescovo nel soccorrere i bisognosi, perché "Una città
dove il vescovo ama i poveri non ha poveri, poiché la chiesa
della città è ricca". Nei piccoli centri era
più facile che il vescovo svolgesse personalmente, almeno
parzialmente, questo impegno; nelle grandi città o in zone
periferiche bisognava ricorrere ad altre persone specifiche, preferibilmente
tra il clero ( ). Con l'aumento della popolazione cristiana del
quarto secolo più persone del clero erano coinvolte. Anzi
tutto i chierici si dedicavano all'assistenza; osserva Ambrogio
che quanto più un chierico si mostra generoso, tanto più
i fedeli offrono (De off. 2,16,78: PL 16,124); essi dovevano essere
immuni dalla tentazione dell'ostentazione, come avveniva nell'evergetismo
pagano (2,21,109-11; 2,24,123) ( ). Gli incaricati della assistenza
cristiana, a Milano, erano i diaconi, ai quali si rivolge Ambrogio
( ), ma anche i presbiteri e i tesorieri ( ); tuttavia il vescovo
era il principale ed ultimo responsabile, come in tutte le città
più piccole ( ); Teofilo di Alessandria si lamenta che
una donna, a sua insaputa e senza i requisiti, era stata iscritta
nel registro delle vedove ( ). Gli Statuta ecclesiae antiqua prescrivono
che i vescovi non devono operare direttamente, ma si devono servire
degli arcidiaconi e degli arcipresbiteri (can. 7). Non si hanno
però testimonianze sulla concreta organizzazione di essa
a Roma: per esempio se la città fosse divisa per regioni
assistenziali. Sembra che anche le vedove svolgessero questo ministero,
in quanto vengono esortate ad opere di misericordia ( ). Tuttavia
il vescovo doveva essere informato di nuovi casi ( ); a Milano
vi doveva esserci, come altrove, una matricula pauperum. Ambrogio
tuttavia esigeva grande oculatezza nella carità verso gli
altri "E' chiaro dunque che la liberalità deve avere
un limite per evitare generosità inutili. A questo proposito
specialmente i sacerdoti devono usare criterio, in modo da distribuire
non per esibizione, ma con senso di giustizia, perché con
nessun altro si dimostra maggiore avidità nel chiedere.
Si presentano uomini robusti, vagabondi di professione che vogliono
carpire i sussidi dei poveri" (De off. 2,16,76); "Moltissimi
fingono di avere debiti: si accerti la verità. Altri si
dicono vittime di furti: ne facciano fede o la constatazione del
danno patito o la conoscenza della persona perché si aiutino
più volentieri. Devono essere forniti i mezzi di sussistenza
agli scomunicati, qualora non abbiano la possibilità di
mantenersi. Dobbiamo non solo aprire gli orecchi per ascoltare
le parole di chi ci prega, ma anche gli occhi per valutare i bisogni,
perché chi benefica con discernimento dà maggior
peso al bisogno che alla voce del povero... Devi vedere colui
che non osa presentarsi; devi andare in cerca di colui che si
vergogna d'essere visto. Ti sia presente anche chi è rinchiuso
in prigione; risuoni alla tua mente la voce dell'ammalato che
non può far giungere la sua voce ai tuoi occhi" (De
off. 2,16,77). interessante anche il seguito fino al parag. 84:
PL 16,130ss).
Esistevano a Roma ospizi comunitari, come esistevano le catacombe
comunitarie? In ogni caso questo genere di assistenza compare
solo nell'avanzato quarto secolo anche in altre città (
). Di ospizi a Milano non si hanno conoscenza al tempo di Ambrogio
( ). A Roma in realtà conosciamo l'esistenza solo di qualche
fondazione privata. Fabiola, prima omnium, fonda a Roma una casa
di ricovero per malati, in cui lei stessa prestava servizio assistenziale;
anzi personalmente andava per le strade di Roma a raccogliere
i derelitti ( ); lei, da molta ricca, ora viveva "in una
casa in affitto". Pammachio fonda a Portus uno xenodochium,
il cui mantenimento comportava molte spese, con annessa basilica
( ). Papa Simmaco (498-514) fece costruire degli habitacula pauperum
nei pressi delle basiliche suburbane di S. Pietro, San Lorenzo
e San Paolo (Liber Pont. 1,269), per i poveri che si affollavano
in quei luoghi anche per mendicare. Il diacono Dionigi, a Roma,
è medico; ha curato i poveri senza chiedere soldi, generoso
anche verso i barbari che lo avevano torturato (ICUR 7,12601).
IV Forme e modi per la raccolta dei fondi.
I beni della chiesa erano considerati il patrimonio dei poveri,
come si esprime Ambrogio: possessio ecclesiae sumptus est pauperum
( ). Per questo bisognava avere cura ed attenzione nella raccolta
e nell'amministrazione. Il patrimonio ecclesiastico che si costituisce
lentamente richiede sempre più una complessa organizzazione
amministrativa.
A) La colletta domenicale, che avveniva in occasione della celebrazione
eucaristica, era il più antico e comune mezzo di raccolta
di cose necessarie per i bisognosi; si offrivano pane e vino,
a volte latte e miele; ma anche altri generi alimentari e vestiario,
denaro, oggetti preziosi; nei territori di campagna e piccoli
centri si offrivano anche i primi frutti. La prima notizia dell'organizzazione
della solidarietà cristiana a Roma, già dalla metà
del II secolo, mediante raccolte festive organizzate per opere
assistenziali, viene da Giustino: "Coloro che hanno in abbondanza
e vogliono, ciascuno secondo la sua decisione, dà quello
che vuole e quanto viene raccolto è consegnato al presidente;
egli stesso va ad aiutare gli orfani, le vedove e coloro che sono
bisognosi a causa della malattia o per qualche altro motivo; coloro
che sono in carcere e gli stranieri che sono pellegrini: è
insomma il protettore di tutti coloro che sono nel bisogno"
( ). Si stabilisce una stretta connessione tra la assemblea domenicale
(il giorno del sole), in cui avveniva la celebrazione eucaristica,
e la raccolta per i bisognosi, come atto di religione, che discende
dalla celebrazione dell'amore del Signore ( ). L'offerta è
libera ed essa viene consegnata al presidente, cioè al
vescovo, il quale personalmente penserà a soccorrere i
bisognosi. Agostino ricordava ai fedeli quando scarseggiavano
i fondi per i bisognosi (Possidio, Vita Aug. 24,14 e 17), cioè
ricordava che il gazophylacium era vuoto. I tradizionali giorni
di digiuno, in occasione delle Tempora e della Quaresima, si accompagnavano
con l'elemosina ( ). La colletta avveniva durante la celebrazione
liturgica episcopale, quando le offerte se deponevano su sette
grosse tavole ( ). Le varie offerte dei cristiani e le oblazioni
costituivano il fondo di beneficenza; nel IV secolo probabilmente
si perde questo senso di solidarietà di tutta la comunità
cristiana, dove tutti, come in Giustino, venivano coinvolti; ora
ci sono speciali occasioni; inoltre la chiesa aumenta la sua proprietà,
il patrimonio ecclesiastico (donazioni consistenti, beni immobili,
munificenza degli imperatori), che serviva a tutte le spese ed
anche alla carità cristiana ( ). L'elemosina, l'aiuta al
povero, si vede anche nella prospettiva della mercatura celeste:
fare un prestito a Dio: "Ti renderesti debitore lo stesso
Padre Iddio, perché Egli quasi debitore per i doni con
cui tu hai aiutato i poveri. Ti renderesti debitore anche il Figlio
di Dio che dice: ebbi fame... " ( 9).
B) Ai tradizionali modi di raccogliere i fondi si aggiunge ora
la possibilità di ricevere donazioni ( ) e le sovvenzioni
statali ( ). Costantino concede privilegi alla chiesa, tra cui
delle sovvenzioni. Teodoreto narra che dopo il banchetto a Nicea
Costantino "diede loro (vescovi) delle lettere indirizzate
ai funzionari che erano a capo delle singole province, per ordinare
che in ogni città fossero fornite ogni anno distribuzioni
di grano alle vergini perpetue e alle vedove e agli uomini consacrati
al servizio divino" (HE 1,11,2-3); aggiunge che Giuliano
le soppresse, ma vennero ristabilite per un terzo da Gioviano.
Le donazioni e i lasciti diventano un fatto normale durante il
quarto secolo; esse vengono fatte in bonum animae, da moltissimi
cristiani ricchi e meno ricchi; come si dice in un sinodo romano
del 502, si fanno donazioni perché memores sui pro remissione
peccatorum suorum et pro aeternae vitae mercaturae (Mansi 8,310).
Questa concezione è estremamente importante, perché
cambia totalmente la ragione e le motivazioni del dare: non per
la gloria qui ed ora, ma la remissione dei peccati e la gloria
eterna. Inoltre molte persone, volendo cambiare totalmente vita,
vendevano tutto per dare il ricavato ai poveri o ai monasteri;
in questo modo le proprietà andavano disperse e poi si
esaurivano le fonti dell'elemosina, per questo i responsabili
delle comunità consigliavano che era meglio fare dei lasciti
di immobili. Queste persone facevano delle scelte radicali, come
Paola che preferiva morire da mendicante ( ). La stessa amministrazione
dei beni per scopo di carità era per Fabiola un genus infidelitatis,
e voleva essere totalmente libera ( ). Anche Melania e Piniano
svendevano tutto, ma non sempre ci riuscivano, come è il
caso della loro domus sul Celio. Arrivati in Africa facevano altrettanto,
ma i vescovi africani, tra i quali Agostino ed Alipio, consigliarono
loro di donare beni immobili ed utilizzare il ricavato: "Quello
che donate ai monasteri, in poco tempo si consuma. Se volete guadagnarvi
un merito eterno, donate sia le case che le rendite" (Vita
Mel. 20). Cfr. E.D. Hunt, Holy Land Pilgrimage Oxford 1982, 141.
Anche Paola veniva consigliata da Girolamo ad essere cauta (Ep.
15,6). Seguendo tale consiglio essi donavano ai monasteri le rendite
e non disperdevano la proprietà. Alla chiesa di Roma Anicia
Faltonia Proba ( ), aveva lasciato clericis, pauperibus et monasteriis
una rendita annuale proveniente dalle sue possessiones dell'Asia;
il cui conduttore, qualche decennio più tardi, non pagando,
causava un damnum pauperum, in quanto quei beni erano alimoniae
pauperum ( ). Altrettanto fece la ricca Olimpiade per l'Oriente
( ). Cfr. Giardina, Carità eversiva 87ss. Vestina lascia
un patrimonio a papa Innocenzo, che l'adopera per costruzioni
e per i poveri (Liber Pont. 1,220). Si afferma ora un altro tipo
di santità cristiana, che in passato era caratterizzata
soprattutto dal martirio; ora vengono lodate quelle persone pie
che lasciano i beni clericis, pauperibus et monasteriis.
Inoltre i membri del clero, specialmente i vescovi, erano esortati
in maniera forte a lasciare i loro beni alla chiesa locale, che
così accresce il suo patrimonio immobiliare.
D) Le collette speciali organizzate a Roma nel mese di luglio,
tra il 5 e il 15, quando i pagani celebravano i ludi Apollinares,
e nei giorni ufficiali di digiuno, erano state istituite con questo
scopo. La festa pagana divenne l'occasione per la raccolta delle
offerte per le necessità assistenziali. Leone Magno dice
che la prassi era già molto antica (Serm. 10,1) e risaliva
ai Patres; il papa in precedenza annunziava quando si doveva fare
la colletta e stabiliva il giorno (Serm. 6-11); facevano la stessa
cosa i presbiteri nelle varie regioni, in quanto la colletta era
fatta in diverse chiese: per omnes ecclesias regionum vestrarum
(Serm. 8), i tituli, che nel quarto secolo erano una ventina.
Non ancora esistevano le diaconie, che saranno istituite posteriormente
( ).
Leone parla del digiuno come occasione per l'elemosina verso
i poveri (Serm. 13) e dice che si soccorrevano tutti (Serm. 9,3).
Gelasio, scrivendo ai vescovi del sud, dice che la quarta parte
delle offerte e dei redditi era destinata ai poveri ( ).
E) Inoltre i fondi per l'assistenza provenivano anche dalle
rendite dei patrimoni immobiliari, che si erano accumulate con
i lasciti di ricche persone, con le donazioni straordinarie di
qualche ricca famiglia, come avvenne tra la fine del quarto secolo
e gli inizi del quinto. L'imperatore Costantino nel 326 formula
un principio generale che gli opulentes devono sovvenire alle
necessità della società, mentre i poveri devono
essere sostentati dalle chiese ( ). Le motivazioni addotte dalla
legislazione erano che le esenzioni accordate al clero arrecano
vantaggio ai poveri ( ); nel 364 (CTh 13,1,5) Valentiniano ricorda
che i cristiani (i chierici?) hanno la responsabilità di
occuparsi dei poveri. Nel 357 l'imperatore Costanzo conferma i
privilegi delle esenzioni alla chiesa romana (CTh 16,2,13). Qualche
tempo dopo invia una lettera al vescovo Felice, per ricordare
che i chierici godevano di alcune esenzioni (specialmente la hospitalitas),
ma che dovevano impiegare il ricavato da attività commerciali
a servizio dei poveri e dei bisognosi. Naturalmente il clero si
preoccupava di aumentare il patrimonio ecclesiastico, sollecitando
tali donazioni da parte di matrone. Per questo papa Damaso viene
definito auriscalpius matronarum [Gesta 1,9-10: CSEL 35, p.]);
anche Girolamo, sempre critico sulla vita del clero, presenta
chierici che fanno visita alle matrone per ricevere donazioni.
Massimo di Torino attesta lo stesso sistema per Torino ( ).
Conclusione
L'atteggiamento cristiano verso i poveri e la povertà
manifesta una cambiamento di valori nella vita della città
tardoantica. i poveri svolgono un "ruolo simbolico e sono
portatori di un messaggio cerimoniale, un ruolo che può
trasformarsi in vere sommosse sociali e di violenza, cosa che
spesso avviene" (Drijvers p. 247); "La differenza tra
il ricco e il povero sostituisce le modalità di rango e
stato che soggiacevano ai gruppi civici del primo impero"
( ). La predicazione cristiana, strumento primario della comunicazione
cristiana, è ricca di riferimenti alla povertà e
alle sue forme sociali, alle varie categorie di bisognosi: dal
prigioniero, al malato, all'orfano e alla vedova. Questa predicazione
influisce a creare una nuova sensibilità e quindi nuove
preoccupazioni. Anche il vocabolario per indicare i poveri subisce
un cambiamento ( ). "l'autore cristiano evita normalmente
quelle parole che hanno sfumature politiche, sociali o morali
(infamis, ignobilis, insufficiens; humilior, tenuior); miser viene
ad assumere una connotazione spirituale" ( ). Per i cristiani,
che adoperano di preferenza il termine pauper, il povero è
colui che ha fame, ha sete e freddo, e pertanto ha bisogno di
essere aiutato in queste sue elementari necessità. Pietri,
Pauvres 839ss; Lattanzio chiede polemicamente: "Qual è
la ragione per cui [i pagani] non ritengono di dover soccorrere
chi ha fame, chi ha sete e chi ha freddo?... L'unico certo e genuino
compito della liberalità consiste nel sostentare gli uomini
bisognosi ed inutili" ( ).
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